Mangiando radici come le capre Nel campo dei dannati somali

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DADAAB (Kenya) — La lunga coda è silenziosa: nessuno sorride, nessuno scambia una parola, nessuno sgomita. Lì, in fila, c’è il migliaio di somali in fuga che ogni mattina, dopo aver passato il confine con il Kenya, e camminato per altri 80 chilometri, si ammassa in cerca d’aiuto davanti agli uffici dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati a Dadaab, in Kenya. I campi di Dadaab si sono gonfiati a dismisura e ora hanno superato quota 400 mila.
La gente che arriva è completamente esausta e aspetta pazientemente il suo turno accucciata sul terreno sabbioso, sotto i raggi del sole, che a mezzogiorno sono cocenti. La registrazione all’Onu è un traguardo miracoloso: vuol dire finalmente un po’ di cibo, acqua, cure mediche e un giaciglio. Issa è scheletrico ma riesce ad alzarsi in piedi da solo per parlare. Nel suo villaggio, Haqable, coltivava mais e pomodori: «Tutto è andato distrutto — racconta—. Non c’era più acqua, non potevamo irrigare e le piante si sono seccate» . E i dieci figli avuti dalle due mogli? «Alcuni sono morti, non so quanti. Gli altri non so dove siano. Haqable è controllata dagli shebab (i miliziani fondamentalisti islamici che hanno giurato fedeltà  ad Al Qaeda, ndr).
Mi hanno rubato quel poco che era rimasto. Non ho potuto fare altro che scappare qui. Sono arrivato nella notte» . Issa ha camminato senza sosta per 15 giorni: «Ho mangiato arbusti e radici, come le capre» . Quando sta per finire di parlare insorge un altro rifugiato che l’apostrofa in somalo e gli intima: «Non parlare male degli shebab. Racconti solo bugie» . Meglio allontanarsi per evitare coltellate. I tre campi intorno a Dadaab (Dagahaley, Ifo e Hagadera) infatti non sono propriamente dei posti sicuri. Davanti al cancello che porta a una grande tenda dell’Unhcr a Ifo, in un’altra fila i rifugiati, qui già  da qualche mese, accoccolati per terra, attendono paziente. «Aspettano che qualcuno gli dia un lavoro— spiega Maria Li Gobbi, cooperante dell’Avsi, organizzazione italiana che lavora a Dadaab da anni —. È così tutti i giorni» . Pochi minuti dopo un uomo uscito dal cancello urla al megafono in somalo: «Oggi non c’è lavoro per nessuno. Andate pure via» . Sui volti già  martoriati della gente esplode la disperazione. Gli occhi si abbassano sofferenti. Nessuno guarda più in faccia lo straniero che fa domande. Tutti si alzano e si allontanano senza pronunciare una parole. Ahamed Mohammud viene da Buale dove faceva il pastore.
«In due mesi — racconta — le mie 45 vacche sono morte. Ho lasciato mia moglie incinta e un figlio. Non so dove saranno ora. La zona è infestata dagli shebab. Temevo che mi volessero ammazzare da un momento all’altro» .
La sensazione è che la gente fugga più dalla guerra che dalla fame. Probabilmente la carestia ha fatto saltare le ultime remore a quanti erano rimasti in Somalia convivendo con la violenza quotidiana; non ce l’hanno fatta più e sono partiti. Forse per tentare di evitare un esodo massiccio i capi degli shebab avevano annunciato di voler riammettere nel loro Paese le organizzazioni umanitarie cacciate qualche anno fa, ma dopo che martedì l’Onu ha dichiarato la catastrofe umanitaria in due regioni della Somalia, Bakol e Basso Shebelle, ieri il portavoce degli shebab, Ali Mohamud Rage, da Mogadiscio ha ribadito che le agenzie sono bandite dall’ex colonia italiana: «Le dichiarazioni dell’Onu sono pura propaganda. Sì, c’è carestia ed è piovuto poco, ma la situazione non è così drammatica come la vogliono presentare» . Il campo profughi di Ifo esiste dal 1991, quando in Somalia è cominciata la guerra civile.
Ormai ci sono famiglie che si sono formate qui, con i figli nati in una delle sue capanne, cresciuti senza una prospettiva di vita e senza un futuro. Il centro di Ifo è organizzato come una città  (ormai è la terza o quarta del Kenya), ci sono negozi di alimentari, ma non solo: anche di computer, di telefoni, di vestiti o di chincaglierie varie. Ma nella sua periferia, nelle capanne di frasche improvvisate dove si sistemano i nuovi arrivati la situazione è disastrosa. Non c’è nulla da mangiare ma— dato che qui la gente non ha soldi — neppure da comprare. «Ehi, ma qui sento parlare italiano» , apostrofa un uomo, uscendo da un tucul improvvisato. Si presenta, Abdirizak Hussen Ali. «Ero professore a Mogadiscio — racconta — e sono scappato il 6 maggio. Ho preso un pulmino fino alla frontiera. Ho pagato 45 dollari. Ma l’ondata di profughi ha fatto alzare i prezzi. Questo mio amico — continua indicando un uomo lì vicino— è arrivato ieri e per la stessa tratta ha speso 90 dollari. Una cifra proibitiva per molti somali» .
È curioso tra la povertà  del deserto e di quelle capanne sentire Abdirizak che recita a memoria lunghi brani della Divina Commedia o declama la leopardiana «A Silvia» e sentire che spiega così i motivi per cui non ha ancora trovato lavoro: «Ci sono forti minacce dei kenioti. Nel campo di notte circolano bande armate che ci minacciano. Uno di noi aveva provato a fare il pastore. È stato picchiato a sangue e ha preferito tornare in Somalia» .


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