«Vidi quelle carte, erano da denuncia»
MILANO — «Gabriè, ho letto tutto, le carte l’ho viste, ci ho studiato… Vai e fai denuncia… Ai tempi miei, cioè quando stavo in procura io, con una cosa così tra le mani ci si apriva l’inchiesta, s’incriminava qualcuno e forse lo si arrestava anche. Adesso per i miei colleghi è tutto più difficile, siamo all’ingegnerizzazione della corruzione. I malandrini si son fatti più furbi, arrivare a dimostrare il reato non è facile… Però ’ sta cosa è strana… Fa denuncia… Sono con te» .
Quelle parole tra lui e Gabriele Albertini, nel 2005, quelle carte sull’acquisto da parte della Provincia di Milano targata Penati del 15%delle quote delle azioni della Milano Serravalle, ovviamente targata Marcellino Gavio, nella memoria di Antonio Di Pietro sono limpide, dice, «come il cielo azzurro di oggi» . «Ricordo e confermo tutto quanto ha raccontato Albertini — dice l’ex di Mani pulite — e condivido con lui l’amarezza per ciò che non ne è seguito. Io ho fatto il mio dovere, Pd o non Pd, alleati o non alleati, ho detto di andare dal magistrato… C’erano spunti investigativi, mica era chiara la condanna… Mettiamola così, c’erano gli atti anomali e bisognava lavorare per trovare l’eventuale mazzetta» . «Ai tempi di Mani pulite, siamo al ’ 94 — dice Di Pietro — per me e i colleghi era come affondare il coltello nel burro, noi abbiamo disarticolato il sistema della spartizione tra i partiti, un taglio netto… Ma già nel 2005, come oggi, per chi indaga non è semplice. Noi trovavamo i soldi nel pouf di Poggiolini, li raccoglievamo nel cesso e sotto alla scrivania di Chiesa, oggi invece ci sono le consulenze, gli scambi di favore, le ipervalutazioni, gli incarichi… Sono queste le mazzette moderne» .
Nel luglio 2005, quando in Serravalle la maggioranza era già pubblica, vincolata dal patto Comune-Provincia, Penati pagò 8,973 ogni quota che a Gavio era costata 2,9 euro, così il costruttore aveva incassato un utile netto di 179 milioni di euro, e, poco dopo, con una quota di 50 milioni era entrato nella cordata che avrebbe acquistato Unipol. Era mettendo in fila tutto questo che Albertini si era insospettito e messo in pista. Aveva parlato con Di Pietro, con Gerardo D’Ambrosio e col loro capo e collega Francesco Saverio Borrelli, tre punte di diamante della Procura di Milano degli anni 90. E fu proprio su loro consiglio che l’ex sindaco s’era presentato al quarto piano del Palazzo di giustizia milanese per affidare tutti i dubbi e le sue carte nella mani dell’aggiunto Corrado Carnevali, ironia della sorte oggi procuratore capo a Monza, l’ufficio che lavora sulle presunte mazzette legate all’ex area Falck e che vede indagato, tra gli altri, proprio Filippo Penati.
Da quel dì, però, nulla più seppe. L’unico a vedere le carte fu Di Pietro, ma anche D’Ambrosio ricorda bene telefonate e consigli dati ad Albertini «perché — ha ribadito ieri — l’accertamento andava fatto» . Borrelli, invece, non ricorda affatto. Ma era in pensione e nulla avrebbe potuto muovere. «Noi magistrati, a Cernobbio, nel ’ 94 lo avevamo detto chiaro. Con poche regolette semplici semplici — punzecchia ancora Di Pietro — la corruzione si può eliminare: via i condannati e gli inquisiti dal Parlamento, e gare pubbliche inibite agli imprenditori sorpresi a ungere. Era la nostra cura per l’epidemia corruzione. Ma dal ’ 94 a oggi, qualcuno la cura l’ha fatta ai medici, non alla malattia» .
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LE MACERIE DELLA DESTRA
Davanti alle tre delibere regionali che hanno fatto lievitare da 1 a 14 milioni i fondi pubblici «rubati» dai partiti nel corso dei tre anni della sua consiliatura, non ha capito che non avrebbe potuto recitare (anche lei, come a suo tempo Scajola e poi persino Bossi) la parte della governatrice «a sua insaputa». O forse lo ha capito, ma proprio per questo non ha voluto e potuto fare altrimenti, cioè scaricare su altri colpe che, se non erano sue dal punto di vista soggettivo, lo erano senz’altro dal punto vista oggettivo.