«Tra Romano e la mafia rapporti consapevoli» I

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PALERMO — Pensava di aver dribblato l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo la richiesta di archiviazione presentata al gip dalla Procura della Repubblica. Ma per Saverio Romano, ministro in quota «Responsabili» all’Agricoltura, radici a Belmonte Mezzagno, paese sotto esame per possibile inquinamento mafioso e scioglimento del consiglio comunale, non è bastata la richiesta salva-fedina di uno dei più tosti pm di Palermo, Nino Di Matteo.
Perché il giudice per le indagini preliminari Giuliano Castiglia, convinto che si debba comunque andare a giudizio e che un processo bisognerà  farlo, ha obbligato la stessa Procura a formulare la cosiddetta «imputazione coatta» entro 20 giorni. Una mossa a sorpresa che segna a fuoco la prima volta di Romano da ministro e conferma i dubbi manifestati dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano quando si vide presentare questo signore arrivato dalla Sicilia con un pesante procedimento ancora aperto. Non se ne farà  niente, si metterà  tutto a posto, assicurava lui agli amici e ai potenti che plaudivano il suo sostegno a Berlusconi. Fiero di avere indovinato la direzione delle indagini, dopo la richiesta di Di Matteo. Adesso sconvolto. Anzi, «addolorato e sconcertato» , come si lamenta parlando di «corto circuito tra le istituzioni e dentro le istituzioni: con questo provvedimento vengono anche messe in discussione le conclusioni alle quali dopo lunghissimi approfondimenti era pervenuta la Procura di Palermo…» . Ma il gip picchia duro: «per Romano non si può parlare solo di contiguità  con Cosa Nostra perché dagli elementi acquisti risulta una sua perdurante, consapevole e interessata apertura verso componenti di primaria importanza dell’organizzazione mafiosa» . È una botta dura che arriva per una indagine avviata nel 2005 anche sull’ex presidente della Regione siciliana, Salvatore Cuffaro, oggi detenuto, e sul medico-boss Giuseppe Guttadauro.
È il filone partito dalle rivelazioni di Francesco Campanella, un pentito interno al mondo della politica, l’ex ministro Mastella e lo stesso Cuffaro suoi testimoni di nozze, pur ignari che brigasse con la cricca del paese di Villabate, lo stesso dove si stampava la falsa carta di identità  per l’allora latitante Bernardo Provenzano. Brutta storia legata al padrino di quell’area, Nino Mandalà , indicato da Campanella come l’interfaccia di Romano. Ma siamo nell’ambito di accuse non riscontrate.
Anzi, lo stesso Mandalà , loquace su un suo blog, ha clamorosamente smentito tutto: «Io Romano non lo conosco e non l’ho mai visto ed è inammissibile che su un rapporto mai esistito se non nella fantasia del signor Campanella si costruiscano accuse così gravi…» . Sarà  forse anche per questo che era partita la richiesta di archiviazione, peraltro formulata dallo stesso ufficio che registra le bordate anti-Romano di un altro discusso teste, Massimo Ciancimino, per presunte tangenti legate alla società  Gas intestata ad alcuni prestanome per conto del padre, «don Vito» . Di qui una indagine per corruzione aggravata dall’avere agevolato Cosa Nostra.
La seconda macchia per il ministro al quale tanti, come Italo Bocchino, chiedono le dimissioni. Puntuali smentite anche su questa materia non sono bastate a Romano per scrollarsi di dosso comunque chiacchiere, critiche e contestazioni nei giorni in cui conquistava al ministero la stessa poltrona occupata vent’anni fa dal suo maestro, Calogero Mannino. Un forte e devoto rapporto sfarinatosi proprio negli ultimi mesi. Con Mannino esterrefatto: «Saverio ha perso la bussola. Siamo usciti dall’Udc non per entrare nel Pdl» . Amarezze in «famiglia» .
Con Mannino, assolto in Cassazione dopo 17 anni di calvario, deciso a non infierire contro quel giovane giunto giovanissimo dal suo paese, proprio come fece negli anni Ottanta Cuffaro, approdando a Palermo da Raffadali: «Arrivarono ancora ragazzini. Totò con la stoffa del capotribù, Saverio sempre dietro, da “applicato”, volenteroso, sollecito…» . Ma fu duro il rimprovero quando chiesero voti a Angelo Siino, ignari che si trattasse del ministro degli appalti di Cosa Nostra e oggi, pure lui pentito, lanciato contro il primo pupillo finito a Rebibbia e contro il secondo, incerto sulla poltrona che a Napolitano non sembrò ben affidata.


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