«Pestato in carcere perché sapevo dei furti»

by Sergio Segio | 20 Luglio 2011 7:08

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 < Se il reato di tortura fosse contemplato nel codice penale italiano, forse sarebbe comparso nell’imputazione a carico dei cinque agenti di custodia del carcere di Velletri accusati a vario titolo di «brutali violenze fisiche e psicologiche» su un detenuto tunisino, Ismail Ltaief, che aveva tentato di denunciare una ruberia di carichi di cibo destinati ai carcerati. Il caso di Ltaief – criminale incallito di 45 anni, gli ultimi trenta passati in Italia ma quasi sempre in prigione, e oggi libero ma clandestino, disoccupato e senza fissa dimora – è uno di quei casi emersi grazie al monitoraggio continuo del sistema carcerario da parte dei Radicali italiani e che, secondo la deputata Rita Bernardini e la segretaria dell’associazione “Detenuto Ignoto” Irene Testa (entrambe in sciopero della fame dal 6 giugno scorso), «ha rischiato di diventare un secondo caso Cucchi». I cinque poliziotti penitenziari, attualmente sospesi dal servizio e sottoposti a diverse misure restrittive, sono invece imputati nel processo che si è aperto il 14 luglio scorso per lesioni gravi e intralcio alla giustizia (l’ispettore Roberto Pagani e gli assistenti Giampiero Cresce e Carmine Fieramosca), e di violenza privata (gli assistenti Antonio Pirolozzi e Mauro Bussoletti). Reati che, a differenza della tortura, possono sempre cadere in prescrizione e per i quali comunque in concreto non rischiano più di tre anni di pena. Ma gli inquirenti di Velletri coordinati dal procuratore capo, Silverio Piro, starebbero lavorando anche ad un’altra indagine – secondo quanto riferisce il difensore di Ltaief, l’avvocato Alessandro Gerardi – che coinvolgerebbe «non solo il corpo degli agenti di custodia ma anche i vertici amministrativi, riguardo un’ipotesi di reato più grave, quella di peculato». All’epoca dei fatti, fino al maggio 2010, Ismail Ltaief, «che lavorava nelle cucine del carcere di Velletri, si è accorto – racconta Gerardi – di un sistema che andava avanti da tanto tempo: alcuni agenti sottraevano ingenti carichi di cibo destinati ai carcerati. Riferisce di essere stato l’unico ad essersi ribellato, nonostante fosse stato blandito con promesse di vario genere. Poi è stato minacciato fino ad un pestaggio violento che lo ha condotto quasi alla morte». Secondo i referti del pronto soccorso dell’ospedale Belcolle di Velletri dove il detenuto è stato trasportato l’1 giugno dopo un colloquio con il magistrato di sorveglianza, Ltaief riportava contusioni, ecchimosi e la «frattura dell’apofisi trasversa destra di L1» causate da un «mezzo di natura contusiva a superficie relativamente ampia» «animato da notevole forza viva», e da «pugni e calci». Secondo Ltaief, che in un’occasione aveva ritirato la denuncia di peculato e di abusi «convinto – dice – dalle guardie che si erano impegnate a lasciarmi in pace», i pestaggi sarebbero avvenuti in tre occasioni. Nel frattempo avrebbe ricevuto minacce, come quella di venire «murato in un pilastro di cemento», e tentativi di corruzione, come l’offerta di «15 mila euro per ritrattare». D’altra parte, la posta in gioco è alta, sempre che si riscontri effettivamente il reato di peculato: «Arrivavano cozze, carciofi, peperoni – raccontava qualche giorno fa Ltaief in conferenza stampa con i Radicali – ma ai detenuti veniva data pasta in bianco». Ora Ltaief è libero per fine pena. Ma nessuno gli offre un lavoro e dopo trent’anni rischia di venire rispedito in Tunisia. Salvo poi essere richiamato come parte civile il prossimo 10 novembre, alla seconda udienza del processo contro un pezzo dello Stato.

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