«Perché adesso è possibile la fine dell’era dell’Aids»

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ROMA — Qualche settimana fa, il settimanale inglese The Economist titolava in copertina: «È la fine dell’Aids?» C’è un punto interrogativo, ma potrebbe succedere davvero? «Sì, è un momento in cui stanno cambiando le “regole del gioco”e oggi si può cominciare a sperare di eliminare la malattia» . Probabilmente non a breve, i problemi da risolvere saranno molti, ma l’ottimismo c’è.
A parlarne, in un’intervista al Corriere, è Michel Sidibé, originario del Mali, 59 anni, direttore dell’Unaids, il programma delle Nazioni Unite per l’Aids, un personaggio chiave nella lotta alla malattia. Due scoperte hanno cambiato le prospettive, negli ultimi mesi. La prima: se si trattano i sieropositivi il più presto possibile, si può ridurre la trasmissione del virus di un buon 90% (e più). La seconda: se si dà  una pillola di antivirali al giorno a persone con alto rischio di infezione (i partner di sieropositivi, ma potrebbero essere tossicodipendenti, prostitute, etero o omosessuali con molti partner), si può ridurre di oltre il 60%il contagio.
Stiamo parlando di terapia come prevenzione, il tema «caldo» della Conferenza della Ias, l’International Aids society, coordinata da Stefano Vella dell’Istituto superiore di sanità , che si è aperta a Roma. «Negli ultimi cinque anni nel mondo dice Sidibé, intervenuto alla sessione inaugurale— sono stati curati 6,6 milioni di sieropositivi, dodici volte più che nel 2001. È un successo. E l’Unaids ha come obiettivo, per il 2015, l’accesso al trattamento per 15 milioni di persone. Ma rimangono 7 milioni di pazienti che hanno bisogno di cure e non possono averle. È un problema di priorità , legato ai costi: curo chi rischia di morire, e magari riduco la trasmissione del virus, o somministro farmaci a persone sane a rischio di infezione per evitare che si ammalino? La priorità  andrebbe al primo gruppo» . Ma Sidibé spiega: «Per pensare a queste strategie occorrono farmaci sicuri, con pochi effetti collaterali e a basso costo. Oggi non li abbiamo» .
 La buona notizia è che una multinazionale ha appena rinunciato al brevetto di quattro antivirali, permettendo alle aziende di generici di produrli a prezzi inferiori. Se l’idea dei farmaci, usati come prevenzione, lascia ben sperare, non vanno trascurati gli altri metodi. «La prevenzione primaria, innanzitutto, e quindi l’educazione sessuale, in particolare per i più giovani, la circoncisione, l’uso di gel vaginali, e del condom, anche in combinazione. Tutti devono essere consapevoli che non esiste la panacea universale e che nessun metodo funziona al 100 per cento» .
La malattia si può prevenire e curare (un ventenne che si infetta oggi ha davanti almeno 50 anni di vita), ma c’è un problema di risorse. Molti Paesi hanno tagliato i finanziamenti al Fondo globale per la lotta all’Aids, malaria e tubercolosi nei Paesi poveri, e l’Italia, nonostante le promesse, non ha versato 260 milioni di euro, più altri 30 stabiliti durante l’ultimo G8 dell’Aquila. «È un peccato — dice Sidibé— anche perché, in precedenza, il governo italiano ha avuto un ruolo attivo nella risposta all’Aids» . Sidibé guarda al mondo intero e conferma che ancora oggi l’Africa rimane la regione più colpita, anche se stanno diminuendo le nuove infezioni, mentre nell’est Europa l’epidemia continua a crescere e i sieropositivi sono triplicati, dal 2001.
 Anche l’Italia non ha risolto tutti i problemi: si contano 4 mila nuovi casi l’anno (uno ogni due ore), gli infetti sono circa 150 mila e, di questi, all’incirca 30 mila non lo sanno. Ecco perché è importante puntare sul test. «È indispensabile promuoverlo dappertutto e, in particolare, dove c’è stigma nei confronti della malattia, stigma che va rimosso diffondendo informazione. E i social media potrebbero rappresentare una nuova opportunità » .


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