Lo spazio tra le parole e i fatti

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Elencarle vorrebbe dire fare una lunga lista di scandali e casi di corruzione ai quali sono seguiti pochissimi casi di dimissioni e invece molte dichiarazioni diffamanti e attacchi agli organi giudiziari e alla stampa o alle istituzioni che osavano bloccare provvedimenti o limitare i danni di decisioni prese. Dopo tre anni gli italiani hanno dimostrato di non gradire più la politica e i comportamenti di questa maggioranza. Lo hanno dimostrato indirettamente nelle elezioni amministrative e con i quattro referendum. La loro voce aveva un senso assai chiaro, ma la classe politica nazionale ha adottato la strategia della sordità  e dell’indifferenza. Siccome non si è trattato di elezioni politiche, si è detto, tutto deve e può continuare come prima, e se possibile più spavaldamente di prima. I tiri mancini tra i membri del governo e il clima da rissa di cui la maggioranza ha dato spettacolo in Parlamento e fuori (salvo ripetere ai fedeli inossidabili che tutto va per il meglio e questo è il migliore dei governi possibili) ha del surreale e del tragicomico. Non migliora l’immagine della nostra classe politica il comportamento di pusillanime codardia di un Pd che non mantiene saldo neppure il suo programma politico (abolizione delle Province) e sembra quasi che abbia timore di essere maggioranza nell’opinione del paese.
Tutto porta ad allargare invece che accorciare il distacco tra la politica dentro e la politica fuori delle istituzioni. Un segno nemmeno troppo criptico di una rappresentanza politica malata e zoppa, alla quale si adatta bene la descrizione di Lewis Namier della classe politica inglese alla vigilia dell’indipendenza americana: faziosa, corrotta, famelica e indifferente all’opinione del paese. Ora, se è vero che sono le elezioni a dare autorevolezza sovrana all’opinione dei cittadini, è altresì vero che nel tempo che intercorre tra due tornate elettorali non sta scritto da nessuna parte che gli eletti e il governo possano fare e disfare a loro piacimento ciò che vogliono (facendo grande affidamento sulla memoria corta dell’opinione mediatica). Tra un’elezione e l’altra la rappresentanza dovrebbe mantenere un dialogo informale con la società , registrarne gli umori, anche quelli sfavorevoli, interessarsi insomma non solo del voto dei cittadini ma anche delle loro opinioni. L’impressione invece è che a chi governa interessi davvero soltanto far sì che l’opinione venga via via riportata nell’alveo dell’accondiscendenza, che essa sia da ascoltare solo quando è addomesticata. Anche a costo di mettere un macigno tra i fatti e le parole.
Un esempio: la discussione sulla manovra che dissanguerà  le amministrazioni locali, il servizio sanitario nazionale e tutto ciò che è pubblico, a cominciare ovviamente dalla scuola (la perenne punita di questo governo) e dai servizi sociali di sostegno a chi ha più bisogno come anziani e handicappati, ebbene questa discussione non ha mostrato grande interesse per ciò che gli italiani saranno costretti ancora una volta a subire senza possibilità  alcuna di far sentire la loro voce e, anzi, contraddetti dal Presidente del Consiglio (che ha voce potentissima) il quale continua imperterrito a ripetere che il governo, contrariamente a quello di altri paesi europei, “non metterà  le mani delle tasche degli italiani”. Ma come giustificare questa affermazione con i tagli che toglieranno molti soldi dalle tasche degli italiani togliendo loro servizi e sostengo senza dare loro alcuna certezza dell’efficacia dei loro sacrifici, come ha spiegato Tito Boeri su questo giornale? Non si giustifica infatti, ma lo si ignora e lo si nega. E come giustificarla con la riforma che scippa alle donne i risparmi derivanti dall’aumento dell’età  della pensione nel pubblico impiego (3 miliardi e mezzo nei prossimi sette anni) senza alcuna politica programmatica che si impegni se non altro a usare queste risorse a beneficio del lavoro delle donne?
Non pare esserci rispondenza tra parole e interessi di chi governa e interessi e vita di chi opera e lavora. Una schizofrenia che raggiunge l’apice nelle parole del Presidente del Consiglio nell’intervista rilasciata a Repubblica, una riprova ulteriore di assenza di dimestichezza con la politica democratica. È infatti il leader che decide chi andrà  e dove, descrivendo la geografia umana e politica delle istituzioni di domani: dal Quirinale al Governo. Come se a lui spetti preparare il nostro futuro: non quello del suo partito, si badi bene, ma il nostro. L’Italia come una sua azienda della quale l’amministratore delegato disegna l’organigramma, dove poco o nulla conta che ci sia una cittadinanza, salvo il fatto che è “un mercato di consenso e di voti”. E perché il mercato risponda a chi investe secondo le aspettative tutte le energie verranno messe in moto; c’è chi parla “per gli elettori” (ovvero dice ciò che è conveniente dire, non ciò che è per noi conveniente sapere) e c’è chi parla “per i mercati”: un ministro per le orecchie del popolo e uno per quelle degli investitori. Dove stia il vero è e resta un rebus. L’accountability, il rendere conto, da cui dipende la differenza tra democrazia elettorale e oligarchia eletta, è violata senza alcun scrupolo. Se la classe politica alla quale il governo rappresentativo e costituzionale da vita è, come ci spiega Peter Oborne, una leadership che ha internalizzato l’idea di dovere pubblico perché ha gradualmente appreso a distinguere ciò che è nell’interesse di sé come gruppo o partito da ciò che è nell’interesse del paese, l’Italia di oggi non ha una classe politica.


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