«Nessun progresso, se prevale il panico»

by Sergio Segio | 29 Luglio 2011 7:05

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  Professore al dipartimento di filosofia dell’Università  di Bergen, Lars Fr. H. Svendsen è molto conosciuto anche in Italia, come autore di Filosofia della moda (Guanda, 2004), Filosofia della noia (Guanda, 2006) e il più recente Filosofia della paura (Castelvecchi, 2010). Proprio sul tema della paura e della fiducia, su cui insiste in quest’ultimo lavoro, abbiamo interpellato Svendsen.
Nel suo Invisible Monster, che lei non manca di menzionare in Frykt, il romanziere americano Chuck Palahniuck scrive: «Da quando il futuro è passato dall’essere una promessa, all’essere una minaccia?». Quando è avvenuto, a suo avviso, il passaggio che ci ha condotti a vivere in società  sempre più esposte al rischio, ma carenti di futuro?
Non c’è, ovviamente, un punto temporale specifico in cui cambiamenti simili avvengono. Posto che si è trattato di uno sviluppo graduale, direi che si possono individuare tracce di questo pessimismo già  negli anni Settanta, ma è nell’ultimo decennio che il fenomeno si è accentuato in modo evidente. Una cultura della paura, e della paura del futuro, è una cultura pessimista. Beninteso, idee pessimistiche sul futuro erano già  presenti nell’antichità , ma oggi sembra che sia diventato la regola. In una cultura della paura, in una cultura vittimista, l’idea del progresso diventa impossibile. Tutt’al più si può arrivare a credere che sia possibile impedire che tutto peggiori. Se si sente di non avere presa sull’esistenza e manca la fiducia nel fatto che si possa rendere il mondo migliore, il futuro diventa poco attraente. Ernst Bloch scriveva che l’importante è imparare a sperare. Se non si impara o peggio si disimpara a sperare la paura può sottrarre fiato alle nostre vite. La speranza è invece ottimista, fiduciosa, attiva e liberatoria. La speranza può spingerci oltre, la paura ci avvilisce.
Lei ha dedicato un libro alla Filosofia della noia (trad. di Giovanna Paterniti, Guanda 2004). Paura e noia, a livello sociale, vengono spesso considerate polarità  emotive contrapposte. Cosa ne pensa?
In effetti, può sembrare una contraddizione che in una società  convivano contemporaneamente noia e paura. Da parte mia, credo che ci sia una forte continuità  interna, nel senso che la società  del rischio in cui cerchiamo di proteggerci da ogni possibile pericolo, è una società  in cui ci priviamo di esperienza e che quindi ci porta alla noia. La paura non è infatti solamente un sentimento al quale siamo esposti contro la nostra volontà , ma spesso è qualcosa che scegliamo di affrontare volontariamente, nel tentativo di superare una quotidianità  banale e noiosa.
L’edizione norvegese di Filosofia della paura è del 2007. Oggi vorrebbe aggiungere qualcosa a quello che lei qualificava nel sottotitolo come «et filosofisk essay», un saggio filosofico?
Si può sempre aggiungere qualcosa. Ho scritto per esempio di più su come la paura ci fa proteggere eccessivamente i nostri figli, privandoli delle più cruciali esperienze infantili. In questo momento, vorrei aggiungere di più sulla situazione in Norvegia dopo il massacro di venerdì scorso. Ogni luogo sul pianeta, scrivevo nel libro, è vulnerabile. Anche un posto tranquillo e marginale, rispetto alle grandi rotte, come la Norvegia. Ora che il paese è stato colpito vorrei ragionare, capire.
Capire come ci si può rapportare – in termini di fiducia e speranza – davanti a un pericolo concreto e reale. Una prima risposta in tal senso, dopo le bombe di Oslo e il massacro a Utà¸ya è stata data dal premier Jens Stoltenberg, che domenica scorsa, nel duomo della capitale ha detto: «Siamo ancora colpiti da quanto ci è accaduto, ma non derogheremo ai nostri valori. La nostra risposta è più democrazia, più aperture, più umanità . Ma nessuna ingenuità ». Parole che suonano quasi strane, dopo le reazioni a cui ci hanno abituato i politici occidentali, almeno a partire dall’11 settembre 2001
È stata una terribile tragedia per la Norvegia. Giusto per mettere le cose in prospettiva, il numero complessivo di omicidi in Norvegia in un anno è mediamente di quaranta. Quindi il numero dei morti di Oslo e Utà¸ya va già  molto al di là  di quanto ognuno di noi avrebbe potuto immaginare. Eppure, ciò che mi rende molto orgoglioso al momento, è come i nostri rappresentati politici e il popolo norvegese tutto hanno gestito questa situazione. Finora, abbiamo dimostrato che una nazione può essere colpita da un simile disastro senza invocare una maggiore sicurezza, senza mettere in discussione i principi fondamentali della nostra democrazia liberale. Questo mi riempie di ottimismo. Più di quello che avevo quando ho scritto il mio libro sulla paura. È esattamente l’opposto di ciò che è accaduto nel mondo dopo l’11 settembre, quando tutti andarono nel panico, le libertà  civili vennero compromesse, e ci furono governi che di fatto promossero la causa dei terroristi, riempiendo ancor più di paura i cittadini. In breve: credo che ci siamo posti un esempio di come si possa reagire agli attacchi terroristici, in particolare insistendo sul fatto che non permetteremo mai che tali atti possano modificare il tessuto stesso della nostra società . È un grande dramma, quello che ci ha colpiti. Ma la reazione può essere un nuovo inizio.

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