Libia, asilo negato a migranti di Paesi terzi, Cir: “No a ricorso a tappeto, un boomerang”
ROMA – Da profughi che cercano riparo dalla guerra di Libia a possibili ‘sans papiers’ che rischiano di finire in massa nei Cie, detenuti per un anno in mezzo in condizioni disumane. E’ il destino che rischia di accomunare migliaia di richiedenti asilo sbarcati in Italia dallo scoppio del conflitto contro Gheddafi. Nei centri di accoglienza stanno arrivando i primi dinieghi delle domande fatte da persone che vivevano in Libia ma la cui nazionalità è diversa. Secondo il sistema di protezione internazionale vale il principio di considerare il paese d’origine, non quello di transito anche nei casi in cui si lavorava in Libia da dieci anni. “Anche per le cose più terribili vissute in guerra da non libici, non si applica la protezione, tranne nei rari casi degli apolidi”, spiega Christopher Hein, direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati. Sono 15 mila le persone accolte attualmente nei Cara per gli sbarchi, esclusi i tunisini. Secondo le statistiche della Protezione Civile, riferite da Hein, il 46% di loro viene da tre nazionalità : Nigeria, Ghana e Mali. Pochi sono i libici, di cui non si hanno stime certe. La maggior parte dei cittadini della Libia si è infatti riversata sugli stati confinanti, Tunisia ed Egitto, dove aspetta la fine della guerra per rientrare. Il 10% sono somali, eritrei e sudanesi, che avranno buone probabilità di avere accordato l’asilo politico perché sono cittadini di paesi afflitti dalle guerre o dalle dittature. Tutti gli altri sono di vari stati sub sahariani come Togo, Costa D’Avorio e Camerun. Per queste nazionalità e soprattutto per le maggiori tre, continua Hein “in passato è stata molto bassa la percentuale di riconoscimento di protezione umanitaria, si presuppone un diniego, alcuni già in atto e altri sono da aspettarsi”.
Che succede dopo il rifiuto? “C’è il ricorso al tribunale che prolunga la situazione di richiedente asilo – dice ancora il direttore del Cir – a livello locale, l’orientamento delle autorità è di far fare ricorso a tutti per beneficiare più a lungo dell’accoglienza, alla quale altrimenti i profughi non avrebbero diritto. Poi verrà l’espulsione e siccome queste persone non potranno lasciare l’Italia in pochi giorni, scaduto il termine, scatterà il trattenimento nei Centri di identificazione e di espulsione, che sono già pieni”. Secondo Hein “questa non rappresenta una soluzione, perché le persone provengono da paesi come il Mali con i quali non c’è un accordo bilaterale per il rimpatrio e quando è impossibile rimpatriare, non ha senso prolungare la detenzione a 18 mesi”.
La posizione del Consiglio Italiano per i Rifugiati, in quanto organizzazione per la difesa del diritto d’asilo è espressa così dal direttore: “Siamo contrari al ricorso a tappeto, è un boomerang. L’opzione è presentare alle persone il rimpatrio volontario assistito con il pocket money”. Hein prospetta anche una soluzione politica, come già detto dalla portavoce dell’Acnur Laura Boldrini. “Pensiamo a un provvedimento del governo analogo a quello del permesso umanitario temporaneo fatto per i tunisini, fatto con un decreto oppure con una circolare alle questure, in attesa che la situazione in Libia si risolva – spiega il direttore del Cir – la maggior parte delle persone erano lavoratori immigrati di cui quel paese avrà di nuovo bisogno per la ricostruzione, non ha senso rimandarli nel paese d’origine dove c’è solo fame e disoccupazione”.
Lo scenario è complesso e la mancanza di diritti per questi profughi costituirebbe un problema per tutti. Il Cir lancia l’allarme. “Bisogna rapidamente trovare una soluzione, altrimenti si rischia di avere migliaia di persone che girano a vuoto, se uno non ha il permesso di soggiorno, non ha accoglienza e non conosce l’Italia, questa è istigazione alla microcriminalità ”, afferma Hein.
La soluzione del permesso umanitario appare la migliore perché si tratta di un documento che ha una definizione più vaga e a discrezionalità maggiore, in cui si può tenere conto anche delle condizioni in un paese di transito, quale la Libia e delle circostanze individuali. Viene rilasciato alle persone malate per potersi curare o alle vittime di violenze, anche sessuali. Dura un anno rinnovabile e si ha il diritto di lavorare. Intanto nei Cara, soprattutto nei mega centri come Mineo e Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto, la tensione è alle stelle, con frequenti proteste e risse a causa della lentezza con cui la commissione territoriale esamina le domande d’asilo, pochi casi al giorno. “Il problema non sono le commissioni ma le questure – dice Hein – sono loro a inviare alla commissione i moduli C3 con le richieste, passano tutte da lì”. (raffaella cosentino)
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