L’anima dell’Europa. L’Unione alla prova della coesione politica

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 A distanza di circa vent’anni (dalla nascita dell’Ue) all’Europa mancano ancora una reale Costituzione, un popolo, un’anima. Sarebbe ingeneroso scaricare sull’euro e sui suoi imperativi categorici tutta la responsabilità . Basta andare retrospettivamente alla discussione, lunghissima e infine inconcludente, sulla Costituzione. Lo sguardo era tutto rivolto al passato, ad una assurda discussione sulle radici più o meno comuni. Con il risultato di trovarvi solo motivazioni e fascine per divisioni e roghi, rilanciare odi e mutue delegittimazioni. Una Costituzione è un patto, un impegno: per il futuro e la sua conquista. L’unico impegno che si può assumere per il passato è quello di rammentarlo, onorarlo e seppellirlo nelle forme più consensuali e sentite.

Nasce da questo vizio prospettico l’afasia per il futuro, l’incapacità  persino di tutti i padri costituenti che si sono avvicendati nel ventennio sulle carte dell’Unione europea a nominare le questioni grandi e terribili della guerra e della pace. Eppure, mai come in questi anni vi sarebbe stato bisogno di prendere la parola, continuare a schierare l’Europa nettamente su quei principi di ripulsa della guerra così decisamente espressi nelle Costituzioni di tanti membri dell’Ue e nell’ordinamento delle Nazioni Unite cui tutti aderiscono.
Nel ventennio si sono allineate quattro guerre: tutte mondiali o globali, tutte intelligenti, senza contare la follia della guerra impossibile, di quella «guerra al terrorismo» in cui Bush e i neoconservatori hanno precipitato gli Usa e il mondo. Si sarebbe dovuta prestare maggiore attenzione a quelle aggettivazioni, magari sfrondandole della vuota retorica che non sa riconoscere l’accanimento sui civili di guerre ormai condotte esclusivamente con il ricorso a mercenari o volontari. Nella mancanza di eserciti di leva o in quel ripetuto e sistemico tentativo di attribuire alla guerra la qualità  di mondiale o globale o ancora di intelligenza si sarebbe dovuto riconoscere il bisogno di cancellare da essa qualsiasi interesse particolare, egoistico, nazionale o di controllare il disfrenamento di una pulsione di distruzione o annientamento generale. In realtà , dal Vietnam in poi, negli Usa e in ogni democrazia che voglia conservarsi tale, la guerra appare e diviene insopportabile. Tutte le guerre più recenti sono state perse o concluse sul fronte interno o di fronte all’incapacità  per ogni democrazia a reggere oltre le tensioni e le contraddizioni scatenate dallo stare in guerra. Il pacifismo, quel movimento salutato da Patrick Tyler sul New York Times del 13 febbraio 2003 come la «seconda superpotenza» del pianeta, avrebbe dovuto lavorare di più su questo dato. La vecchia talpa aveva scavato in profondità  e messo radici. L’Europa soprattutto, l’Unione europea poteva molto in questo campo. Invece è prevalso un silente, occidentalistico allineamento alle filosofie di guerra preventiva e tante, troppe divisioni. L’Europa si dimostra orba e muta fuori dai propri confini, soprattutto sulle questioni della pace e della guerra.
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L’utopia di un’Europa potenza civile dovrebbe e potrebbe alimentare il progetto di un altro continente, meno desideroso di acquattarsi in un Occidente sospettoso del mondo. Bisognerebbe però cambiar strada, tornare a parlare lingue che sembrano scordate, familiarizzare con i nuovi esperanto che percorrono il mondo. Ma in Europa oggi, nell’odierna Unione Europea, la politica muore rinchiusa nei non possumus dei patti di stabilità  e delle loro riscritture. La destra non vi si acconcia e scalpita e perverte nel neopopulismo che scaccia e cancella i popoli, li trasforma in vocio e cieco rancore. A sinistra, scoperta l’Europa all’indomani della caduta del Muro, vi si è accodati mutuando un europeismo di maniera, praticandone molto uffici e comitati, meno piazze e movimenti.
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Oggi in Europa dominano assenteismo e silenzio, in particolare assenza e silenzio della politica. Un esito paradossale nell’epoca della comunicazione, dello scatenamento delle nuove forme di scrittura e partecipazione, a fronte di un mondo che si solleva e chiede parola. Un silenzio la cui natura e le cui cause possono forse essere utilmente indagate ponendo sotto la lente altri silenzi, forse intrecciati tra loro: quello degli intellettuali e quello sul mondo arabo e la sua nuova primavera.
E’ stato sottolineato con grande acutezza come uno degli esiti paradossali della caduta del Muro sia stato costituito dalla pratica scomparsa dalla scena, spesso persino dalla memoria degli eventi, di una figura cardine della guerra fredda: l’intellettuale del dissenso. Vittima del proprio successo è finito fagocitato e azzittito nei processi di transizione al mercato che privilegiavano specialismi e settorialismo rispetto alla vocazione universalistica dei tempi d’oro.
Ad Ovest un processo analogo ha investito la figura dell’intellettuale impegnato. Tony Judt nelle sue note sottolinea il silenzio e l’irrilevanza in cui caddero il 31 maggio 2003 gli appelli pubblicati sui maggiori giornali europei da Habermas e Derrida, Eco o Vattimo, Savater o Rorty. Chiamavano l’Europa ad un nuovo Rinascimento contro la nuova avventura americana in Iraq. Come ad Est anche qui prevale il divorzio tra la concreta avventura dell’Europa e le forme dell’impegno culturale. Si tratta di un dato eclatante, ancor più appariscente in quelle figure che più hanno provato a confrontarsi con la realtà  dell’Unione Europa: si tratti di Jà¼rgen Habermas, Etienne Balibar o Toni Negri, con le loro visioni differenziate ma tutte accomunate dal civismo ottativo di una politica ridotta e dissolta in comunicazione.
Sull’altra sponda del Mediterraneo si è alzato un grido e grandi scossoni sono già  stati inferti alle autocrazie tunisine e egiziane. Ma il contagio non si ferma e s’allarga a macchia d’olio. La Libia ne è investita e ovunque nel mondo arabo è fermento e rivolta. Il mondo intero e l’Europa assistono stupefatti ad una mobilitazione inaspettata. Eppure non v’era stato nessuno al mondo che non si fosse misurato con il tema dell’«infelicità  araba» e con lo stato di storica prostrazione denunciato dall’Undp con i suoi Report sull’Arab Human Development. Aveva cominciato l’Europa con il Partenariato euro-mediterraneo prima e l’Umed poi, improvvisata e incautamente assemblata, dal presidente francese Sarkozy. Vi si era dedicata l’America con l’esportazione della democrazia e il disegno per un grande Medioriente lanciato da Bush II e Condoleezza Rice. Senza dimenticare l’appello di Al Qaeda contro il dominio occidentale e le tirannie indigene vendute al Grande Satana americano. Né gli arabi stessi erano stati con le mani in mano. Prima ancora che giungesse internet con la sua rivoluzione ad unificare nazioni e popoli, a dotarli paradossalmente di uno spirito comune, aveva provveduto l’iniziativa delle oligarchie locali con l’apprestamento di canali tv dedicati, tali da far divenire reti come Al Jazeera e Al Arabiya colossi di grande rilievo nel panorama internazionale.
Si tratta di un movimento che, come nella caduta del Muro tedesco, è fatto nelle città , prevalentemente da giovani, alle prese con una sopravvivenza stentata e soprattutto senza futuro. Qui si fermano forse le somiglianze. Cade un altro Muro, ma l’Europa non si commuove come allora. Non si muove. Non si appassiona Non partecipa. Allora vi fu entusiasmo, i tempi della chiusura e dell’indifferenza vennero dopo. Vi furono spazio e tempo per l’accoglienza, l’incontro. La rivolta araba viene ora immediatamente traguardata nella contabilità  interessata di profughi e immigrati, senza nemmeno l’accenno all’aiuto e al soccorso.
Scartabellando nelle memorie di uno dei padri dell’Europa comunitaria, Jean Monnet, si può trovare una annotazione di grande interesse. Egli ricorda il 1956 e l’invito di uno dei suoi collaboratori all’Euratom: «suggeriva di dedicare una statua a Nasser, come federatore dell’Europa. Un teorico dell’onnipotenza degli uffici e dell’unificazione precipitata e guidata dagli interessi, riconosceva nei movimenti dei popoli e nelle decisioni degli uomini le tracce di un comune atto di nascita. La ribellione allora al neocolonialismo come atto decisivo per costringere gli Stati europei a ritrarre il loro artiglio sul mondo e ad avventurarsi nella costruzione della comune casa europea.
Il banale confronto con quella che Monnet allora immediatamente derubricava a boutade ci dà  l’immediata percezione della abissale distanza che ci separa da quell’età  e quella storia. Ci restituisce alla Lilliput dei nostri giorni.

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L’ANTICIPAZIONE

Arriva nelle librerie in questi giorni, edito da La meridiana di Molfetta, «Tra due secoli. Tappe e approdi dell’Unione europea 1989-2011», di Isidoro Davide Mortellaro, docente di Storia delle relazioni internazionali nell’università  di Bari.
L’attualità  di alcune pagine sull’attuale crisi dell’Ue e sulla primavera araba, ci suggerisce di anticiparne alcune pagine dell’introduzione.


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