L’altra Islanda che resiste all’Europa

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 Non è usuale, dalle nostre parti, sentir parlare di Islanda, un paese abitato da 320mila anime in tutto e relegato nelle estreme e fredde propaggini settentrionali del continente europeo. Eppure gli islandesi meriterebbero più attenzione da parte dei media, visto che sono stati i primi europei a sviluppare una risposta di massa alla gestione della crisi da parte dei governi locali e delle istituzioni economiche internazionali. Qualche giorno fa, ad Atene, durante le manifestazioni dei sindacati e degli «indignati» contro i tagli e le privatizzazioni del governo Papandreou, abbiamo incontrato Thorvaldur Thorvaldsson, un attivista della sinistra radicale islandese, e ne abbiamo approfittato per porgli qualche domanda.

Qual è il vostro giudizio sugli avvenimenti che hanno scosso l’Islanda negli ultimi anni?
La protesta popolare è esplosa nell’ottobre del 2008, dopo il collasso del sistema bancario che ha rivelato in maniera scioccante una crisi fino a quel momento latente del sistema economico capitalista. È emerso allora un movimento di massa che per mesi, ogni settimana, ha manifestato nelle piazze del paese, e in particolare davanti al parlamento. Agli inizi del 2009 la protesta ha imposto un significativo cambio di governo. Prima l’esecutivo era formato dai conservatori, e poi è passato nelle mani di socialdemocratici e verdi. Questa svolta, su pressione della piazza, ha generato una grande illusione e una grande speranza. L’idillio tra partiti di centrosinistra e movimento di protesta è durato per un po’. Nelle elezioni politiche della primavera del 2009 i due partiti hanno ottenuto la maggioranza assoluta. Ma presto la speranza di un cambiamento significativo di rotta, economicamente parlando, è stata frustrata. La gente si è resa conto che il nuovo governo stava proseguendo sulla stessa via di quello precedente, in ossequio ai diktat di banche e istituzioni internazionali. La disillusione è aumentata quando il governo di centrosinistra ha chiesto l’adesione dell’Islanda all’Unione europea, conducendo un’ingannevole campagna propagandistica secondo la quale se il paese fosse stato già  membro dell’Ue le nostre banche non sarebbero fallite… Per un po’ i sondaggi hanno concesso un leggero vantaggio a coloro che erano d’accordo con l’ingresso dell’Islanda nell’Unione. Ma poi, man mano che le bugie venivano smontate, i contrari hanno raggiunto una quota tra il 60 e il 70%. Anche se il governo continua a tentare di imporre questa scelta al paese, grazie alla profonda contrarietà  dell’opinione pubblica il processo di adesione è stato comunque già  ritardato di anni, e i negoziati veri e propri sono iniziati da poco. Se mai decideranno di indire sull’argomento un referendum, lo perderanno.
Perché siete così contrari ad entrare nell’Unione europea?
Se entrassimo nell’Ue sarebbe più difficile per noi contrastare le politiche che i vari governi adottano per scaricare la crisi sui ceti sociali meno abbienti. Potremmo dire che l’Unione ha inglobato queste politiche nel suo Dna, ne ha fatto la sua vera Costituzione. Naturalmente l’Unione è interessata anche alle nostre risorse, per questo preme affinché la nostra adesione sia rapida. Vogliono il nostro patrimonio ittico e le nostre riserve di idrocarburi. Per non parlare del controllo che potrebbero stabilire su un quadrante marino così esteso e così vicino al Polo nord, strategicamente fondamentale. Inoltre pensiamo che la nostra resistenza all’ingresso nella confederazione rappresenti un sostegno a chi, all’interno dei suoi confini, oggi discute sull’opportunità  o meno di rimanerci. Ormai non siamo più ai tempi delle vane promesse di un futuro migliore, ma dobbiamo tracciare un bilancio realistico e spietato di questa esperienza fallimentare. Non si può non riconoscere che l’adesione all’Ue ha comportato un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei cittadini di molti paesi.
Cosa pensa della questione del debito e delle misure che il Fondo monetario internazionale sta imponendo ai vari paesi?
Dopo il fallimento delle banche l’Islanda è stato il primo paese del continente europeo ad essere sottoposto da decenni ad un piano di aggiustamento del Fmi. Il fatto che un paese europeo avesse «bisogno» dell’aiuto di questa istituzione finanziaria internazionale ha generato uno shock nell’opinione pubblica. Ma i cosiddetti aiuti dell’Fmi non sono affatto tali, anzi impediscono ai popoli e ai paesi di risollevarsi. L’Islanda è stata obbligata a chiedere un prestito di 2.1 miliardi all’Fmi. Ogni scadenza delle varie tranche del debito è servita al Fondo per obbligarci ad accettare condizioni capestro che servivano a garantire le banche britanniche che hanno speculato nel nostro paese ma poi sono fallite. Sulla questione del pagamento del debito il governo è stato sconfitto ben due volte in altrettanti referendum, e con percentuali altissime, dopo che il Presidente si era rifiutato di accettare l’imposizione di un altro prestito. I prestiti sono stati «concessi» in cambio di un ulteriore processo di privatizzazione di ogni aspetto della nostra economia. Nel 2013, data entro la quale il nostro debito dovrebbe essere estinto e il prestito restituito con enorme sacrificio per gli islandesi, cominceranno i veri problemi: perché i soldi per farlo non ci saranno, e la cifra da restituire non sarà  più di 2,1 miliardi, ma sarà  salita per gli interessi a 2 e mezzo, se non di più. E noi non potremo pagare. Così, il governo islandese dovrà  chiedere un altro megaprestito per pagare gli interessi nel frattempo maturati su quello precedente. L’Fmi a quel punto diventerà  l’unico e incontrastato padrone dell’Islanda, e imporrà  ulteriori tagli. È così che lavora il Fondo monetario. All’inizio della crisi si era diffusa la voce che ci sarebbero stati dei cambiamenti importanti nel suo modo di procedere, che in Europa l’Fmi si sarebbe comportato diversamente rispetto ai metodi normalmente utilizzati nel cosiddetto Terzo mondo. Una speranza infondata, basata sul pregiudizio di superiorità  dell’Europa rispetto al resto del pianeta. Perché mai l’Fmi dovrebbe essere meno aggressivo e invadente con i paesi europei? Se non ci saranno profondi cambiamenti politici ed economici, a breve lo standard di vita per le grandi masse di cittadini europei andrà  drammaticamente a fondo. In questi anni «l’esercito di schiavi», se così posso chiamarlo, sta ingrossando le sue fila, mentre lo strato benestante della popolazione si sta assottigliando e i ricchi diventano sempre più ricchi. Bisogna cambiare, e subito! La nostra organizzazione politica si è formata sulla spinta della nuova situazione che si era venuta a creare nel 2008 in occasione del fallimento delle banche. Al centro della nostra piattaforma e della nostra azione politica abbiamo posto il recupero della nostra sovranità  nazionale e popolare, oltre che la proprietà  comune, collettiva delle risorse naturali. Le infrastrutture economiche devono essere riportate sotto il controllo pubblico, sottratte alla dittatura del mercato. Inoltre difendiamo un allargamento della democrazia e della partecipazione politica a tutti i livelli. Non ci accontentiamo della democrazia formale, pretendiamo che le persone abbiamo più strumenti a disposizione per dire la propria. L’azione dei partiti e dei governi non può prescindere dall’opinione delle persone e dalla volontà  popolare, non può restare impermeabile . Stiamo lavorando per veicolare questi valori nel movimento popolare, in particolare all’interno dei sindacati e nelle organizzazioni impegnate nella mobilitazione contro l’Ue.
Cosa pensa che accadrà  a breve per quanto riguarda le crisi negli altri paesi europei: la Grecia, la Spagna, l’Italia?
Penso sia solo una questione di tempo per tutti questi paesi. Le differenze sociali e di classe aumentano, e lasciano spazio a due sole opzioni. Si possono svendere tutti i beni pubblici e obbedire senza eccezioni ai mercati, cosa che stanno facendo tutti i governi finora, anche quelli cosiddetti di sinistra, accontentando tutte le richieste del capitale. Oppure i popoli si possono organizzare e unire a partire da un proprio programma indipendente, sviluppando processi realisticamente rivoluzionari. Unirsi e organizzarsi: è l’unico modo per poter imporre dei reali cambiamenti nell’immediato futuro. È ciò di cui abbiamo estrema necessità .

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Crisi /LA PICCOLA ISOLA SULL’ORLO DEL BARATRO
Gli indignati di Reykjavik riscrivono la costituzione

 M. San

«L’Europa – ha detto recentemente il presidente della commissione Affari esteri della Camera, Stefani – dimostra di non parlare con una sola voce e di non avere una politica estera sufficientemente forte per fronteggiare la crisi. Non mi stupiscono i recenti sondaggi che hanno evidenziato come l’opinione pubblica islandese sia divenuta euroscettica». È vero, gli islandesi sono euroscettici. Forse, quanto è accaduto negli ultimi anni nel piccolo e finora ricchissimo paese nordico ha raffreddato l’euro-entusiasmo degli islandesi.
Per anni l’Islanda ha privatizzato tutto il possibile. Aziende di stato, servizi pubblici e banche sono stati regalati ai privati, spesso gruppi finanziari internazionali. Una sfrenata speculazione ha portato gli istituti finanziari ad aumentare a dismisura la propria esposizione, che dal 200% del Pil è arrivata al 900% nel 2007. Il Pil cresceva ogni anno del 6%, i tassi d’interesse erano alti e ciò incoraggiava l’afflusso di denaro dal mercato globale per finanziare debito pubblico, azioni e obbligazioni islandesi.
Anche se l’indebitamento delle banche e quello del piccolo stato galoppavano a ritmi sfrenati, apparentemente tutto filava liscio. Gli ignari islandesi non sapevano di vivere sull’orlo di un vulcano ben più pericoloso di quello che ha bloccato il traffico aereo di mezzo mondo.
Nel 2008, ai tempi della crisi dei mutui subprime, il giocattolo si rompe. Le agenzie di rating denunciano l’impossibilità  per banche e governo di garantire il pagamento dei debiti, la raccolta di fondi sui mercati internazionali si blocca bruscamente, le 3 principali banche del paese – Landsbanki, Kaupthing e Glitnir – falliscono. La moneta nazionale, la corona, perde improvvisamente l’85% del proprio valore contro l’euro, gettando sul lastrico centinaia di migliaia di persone. La disoccupazione dall’1% nel 2008 passa all’8,2% del febbraio 2009. A luglio del 2009 il governo accetta un prestito di 2 miliardi di euro dal Fondo monetario internazionale, che interviene anche sulla questione del debito degli istituti finanziari islandesi. Ma l’«offerta d’aiuto» dell’Fmi e dell’Unione Europea consiste nell’obbligare gli Islandesi, che non hanno alcuna responsabilità  per quanto è avvenuto, a rinunciare al proprio welfare, oltre che a una considerevole percentuale dei propri stipendi già  erosi dalla svalutazione della corona. Di fatto, gli islandesi dovrebbero pagare di tasca propria i debiti che le banche del paese, controllate da grandi gruppi stranieri, hanno contratto con altre banche, per lo più britanniche e olandesi.
L’indignazione popolare esplode allora con una determinazione mai vista nella piccola e placida isola: la protesta provoca le dimissioni del governo di destra del Partito dell’indipendenza e il varo di un inedito governo di alleanza tra Socialdemocratici e Verdi di sinistra. Nonostante le promesse di una svolta antiliberista, il nuovo esecutivo cede però presto alle pressioni delle banche, dell’Ue e dell’Fmi, accettando di far pesare il debito – 3,5 miliardi – sulle famiglie: gravandole cioè di un «pizzo» di 100 euro al mese per 15 anni. Il popolo islandese, già  esasperato, torna in piazza e ottiene dal presidente della Repubblica à“lafur Ragnar Grà­msson il veto sulla manovra fiscale e la convocazione di un referendum. Nonostante le minacce da parte delle banche creditrici britanniche – che prefigurarono il congelamento dei depositi bancari degli islandesi e il blocco di ogni prestito – nel marzo del 2010 il no alla restituzione del debito realizza un plebiscitario 93%. Ora ad Atene e a Dublino sono in molti a chiedersi: se un piccolo e debole paese come l’Islanda ha saputo dire di no ai ricatti dell’Fmi e dell’Ue, perché non fare lo stesso anche altrove?
Nel frattempo il movimento di protesta non è scomparso, ma ora punta a una profonda riforma delle istituzioni del paese. Anche grazie a un uso socialmente e politicamente orientato di Internet – un paese di soli 320mila abitanti se lo può permettere – si è riusciti a imporre l’elezione di un’assemblea costituente composta da 25 cittadini senza tessera di partito. L’obiettivo esplicito: varare una nuova Carta Magna che porti il paese fuori dalla crisi, ristabilisca la sovranità  nazionale e rafforzi la democrazia reale.


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