La siccità , la guerra, il clima

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E’ la prima volta in assoluto che il Consiglio di sicurezza sottoscrive un’affermazione simile, e non era scontato. Per il segretario generale Ban Ki moon: «gli eventi meterologici estremi diventano sempre più frequenti e intensi … devastando non solo vite ma anche infrastrutture, istituzioni e bilanci – un mix che può creare pericolosi vuoti di sicurezza». Si è spinto oltre Achim Steiner, capo del Programma Onu per l’ambiente (Unep), che ha descritto il cambiamento del clima come una delle «maggiori minacce per la pace e sicurezza futura». Per spiegarsi ha citato la Somalia in preda alla siccità , con con 3,7 milioni di persone che rischiano la morte per fame. Crisi simili, dice Steiner, sfidano la nostra capacità  di gestire gli eventi, «soprattutto se avvengono simultaneamente coinvolgendo i mercati mondiali del cibo, questioni di sicurezza alimentare regionali, masse di persone sfollate che fuggono attraverso le frontiere».
Rispetto al testo proposto dalla Germania, la risoluzione infine approvata stempera i toni – il cambiamento del clima «può, nel lungo termine, aggravare certe minacce esistenti alla pace e sicurezza internazionale». Solo così è rientrata l’opposizione della Russia, restìa a coinvolgere il Consiglio di sicurezza nella questione del clima, oggetto di un negoziato internazionale che si trascina con difficoltà  da alcuni anni («così si politicizza ancor più la questione», diceva l’ambasciatore russo Alexander Pankin). Resta il punto. E il caso del Corno d’Africa è davvero emblematico.
Due stagioni consecutive di piogge sono andate a secco e il risultato è una delle annate più aride dal 1950-’51 in un’ampia zona dell’Africa orientale che include Somalia, Etiopia, Gibuti, Kenya e parte dell’Uganda. Intere regioni agropastorali sono devastate, pascoli disseccati, terre riarse. Così da alcuni mesi è cominciato un esodo umano di proporzioni impressionanti. Dalla Somalia meridionale almeno 135mila persone sono fuggite da gennaio, per lo più verso il confinante Kenya: giorni e giorni di cammino attraverso circa 80 chilometri di terre aride e sabbiose, sfidando il pericolo degli animali selvatici e il taglieggiamento dei predoni (spesso anche poliziotti), in cerca di cibo, acqua e aiuti. Chi non soccombe al viaggio arriva a Dabaab, campo profughi costruito dall’Onu nel Kenya nord-orientale nel 1991; era previsto per 90mila persone ma oggi ne ospita almeno quattro volte di più, e nuovi fuggiaschi arrivano al ritmo di oltre mille al giorno.
L’allarme lanciato mercoledì dalle Nazioni unite riguarda in particolare la Somalia, dove la catastrofe climatica è aggravata da vent’anni di guerra, che ha privato gran parte della popolazione dei margini di sopravvivenza (la questione ora è se le agenzie internazionali torneranno nelle zone sotto il controllo dei ribelli islamisti di al Shabaab). Ma anche dalla vicina Etiopia meridionale migliaia di persone fuggono, in cerca di terre meno aride dove pascolare il bestiame. E lo stesso Kenya soffre: già  due mesi fa il presidente Mwai Kibaki ha dichiarato la siccità  una catastrofe nazionale, 5milioni di persone nel nord del paese sono alla fame.
In tutta la regione 11 milioni di persone sono in pericolo, e l’Onu ha fatto appello per 1,6 miliardi di dollari di aiuti per l’emergenza (ma ne ha ricevuti circa la metà ). Lunedì la Fao, a Roma, riunirà  un vertice ministeriale d’emergenza voluto dalla Francia, presidente di turno del G20: ci saranno anche i reppresentanti di altre agenzie Onu, le grandi Ong internazionali e le banche regionali di sviluppo. Forse la «macchina degli aiuti» si metterà  in moto. C’è un solo rischio: che si concentri sulla sola Somalia.


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