La sentenza Cirio e la fine di un sistema

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Qualcuno dirà  che il processo Cirio appone il sigillo giudiziario alla resa dei conti con gli eredi di Vincenzo Maranghi, che già  l’avevano consumata sul piano del potere imponendo al banchiere romano le dimissioni dalla presidenza delle Generali. In effetti, nel 2003, era stato proprio Geronzi, forte dell’appoggio della Banca d’Italia, a saldare una sorprendente alleanza tra la sua Capitalia e l’Unicredit di Alessandro Profumo per costringere Maranghi a lasciare Mediobanca. Tutti e tre gli avversari del banchiere milanese— il governatore Antonio Fazio nel 2005, Profumo nel 2010 e Geronzi nel 2011 — hanno perso la poltrona senza lasciare eredi; gli ultimi due con il concorso rilevante dei maranghiani. Che, con Renato Pagliaro e Alberto Nagel, hanno ripreso il pieno dominio di Mediobanca e, con Fabrizio Palenzona, una notevole influenza in Unicredit.
 E tuttavia, per quanto suggestiva, una simile lettura rischia di essere superficiale. In realtà , il processo Cirio appone il sigillo giudiziario sulla crisi di un intero sistema di potere che, nei vent’anni della Seconda Repubblica, aveva in Geronzi il suo supremo mediatore finanziario, irrobustito dalla gratitudine di Silvio Berlusconi e, quanto ai debiti degli ex comunisti, di Massimo D’Alema.
 Di questo sistema, che tra il 1995 e il 2005 ha goduto del supporto di Fazio, facevano parte la Fininvest, il gruppo Ligresti, i francesi di Bolloré, per un periodo la Popolare di Lodi e quegli esponenti del mondo dell’impresa, dalla Pirelli a Colaninno, dai costruttori romani alla Parmalat, che avevano in Capitalia un polmone finanziario. Ora, ciascuno va per la sua strada. Il sistema illuminato dal processo Cirio trova il suo cuore in Capitalia, dove alcuni dei principali clienti erano stati convinti da Geronzi a diventare azionisti, così da rendere inattaccabile la sua posizione.
Un modello non nuovo, se si pensa alla Mediobanca storica, delle banche Iri e della Fiat, e alle stesse Generali di oggi, dove il management coltiva anche soci legati alla compagnia da affari comuni. Ma mentre Cuccia e Maranghi non persero mai un quattrino, negandosi perfino ai disegni del loro grande azionista Raffaele Mattioli, e i loro eredi non sgarrano con gli affidamenti, e mentre le Generali guadagnano nell’Est Europa, almeno finora, Capitalia ricavava vaste sofferenze dal rapporto con i suoi debitori di riferimento. E Geronzi in quel mare di cattivi crediti navigava da par suo.
 La ricostruzione dell’affare Eurolat, la società  del gruppo Cirio imposta a Parmalat per riuscire a far recuperare alla Banca di Roma circa 500 miliardi di lire di crediti verso Cragnotti altrimenti inesigibili, inchioda alla responsabilità  diretta il comitato esecutivo dell’istituto capitolino, advisor di entrambe le parti e garante della riservatezza dell’operazione, alla faccia dei conflitti d’interesse. E se pure la trasformazione del resto dei crediti di dubbia qualità  verso Cirio in obbligazioni sottoscritte dalle banche e ricollocate presso la clientela minuta è andata in prescrizione, la sua morale resta, è assai triste e non solo perché Matteo Arpe, che sollevò il coperchio su quella pentola, non durò poi a lungo.
Quell’operazione si reggeva in tanto in quanto le obbligazioni spazzatura Cirio potevano essere cedute agli ignari utilizzatori finali degli sportelli bancari. A ben guardare, è lo stesso schema degli incensurati banchieri di Wall Street, che hanno trasformato i crediti di peggior qualità  in titoli finanziari, promossi dalle agenzie di rating, affinché potessero essere profittevolmente riciclati presso utilizzatori finali, le banche di tutto il mondo, non meno ignare, di fatto, degli obbligazionisti Cirio, ma forse complici di un sistema che non va.


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