La mutazione del capitalismo
«A circa tre quarti del ventesimo secolo i governi dei paesi anglosassoni, Inghilterra e Stati Uniti, presero la storica decisione di liberalizzare i movimenti internazionali dei capitali. Diventò possibile trasferire capitali da un punto all’altro del mondo alla ricerca del massimo profitto. Fino ad allora, nel regime instaurato a Bretton Woods questa possibilità era stata assoggettata a severe limitazioni.
Queste limitazioni avevano reso possibile un patto fondamentale tra capitale e lavoro, cuore del compromesso tra capitalismo e democrazia, che contraddistinse quella che fu chiamata da un grande storico di quei tempi l’età dell’oro. I capitalisti rinunciavano alla ricerca del massimo profitto e i sindacati alla piena utilizzazione del loro potere contrattuale. Ambedue subordinavano le loro pretese al vincolo dell’aumento della produttività . Si chiamava politica dei redditi e assicurò qualche decennio di crescita sostenuta accompagnata da alta occupazione del lavoro e da equilibrata distribuzione dei redditi.
La liberazione dei movimenti di capitale fece saltare questo tacito patto con conseguenze economiche e sociali contraddittorie.
Masse di capitali affluirono nei paesi poveri suscitandovi imponenti processi di sviluppo soggetti a improvvisi e devastanti deflussi. Nei paesi ricchi quella decisione provocò invece una vera e propria mutazione del capitalismo.
La ricerca del massimo profitto nel minimo tempo sviluppò le attività finanziarie e speculative rispetto alla produzione reale. Ne risultò un rallentamento della crescita e uno spostamento dei redditi dal settore reale a quello finanziario accompagnato da un aumento vertiginoso delle diseguaglianze. Sul piano mondiale si verificò un altro processo sconvolgente. Il risparmio dei paesi poveri investiti dallo sviluppo fu attratto dai mercati finanziari dei paesi ricchi che gli garantivano sicurezza e rendimenti elevati. Invece di alimentare i bassi consumi dei primi finanziò i consumi eccessivi dei secondi instaurando una condizione di squilibrio permanente delle bilance dei pagamenti.
Ma gli squilibri non si produssero soltanto nello spazio, investirono il tempo. L’accumulazione finanziaria fu finanziata sempre più dai redditi futuri, sotto forma di indebitamento: come dire, vivendo alle spalle dei posteri. Questo fenomeno assunse caratteristiche sistematiche, al punto che un economista definì il nuovo capitalismo come il regime economico in cui i debiti non si pagano mai, ma sono sistematicamente rinnovati.
Qualcuno di voi mi domanderà : era sostenibile una tale condizione di cose? La risposta è: no. Infatti, verso l’inizio del secolo ventunesimo una crisi violenta provocata dal collasso dei debiti del settore immobiliare in America travolse i mercati mondiali. La grande crisi che l’aveva anticipata, negli anni Trenta di quel secolo, era stata superata grazie (si fa per dire) alla seconda guerra mondiale; ma anche, immediatamente prima e immediatamente dopo di quella, a un decisivo spostamento dalla guida privata alla guida politica dell’economia.
Invece, quella nuova e altrettanto devastante crisi fu superata brillantemente rifinanziando i soggetti che l’avevano promossa: banche e intermediari finanziari. Il costo fu pagato dai lavoratori rimasti senza lavoro e dai contribuenti. Ciò diede luogo a forti disavanzi pubblici che furono vivamente contestati dai “mercati” che l’avevano suscitati, e che furono repressi con severe misure di taglio delle spese sociali.
Dopo qualche pausa di riflessione il meccanismo dell’accumulazione finanziaria riprese, pur se con qualche deplorato ritardo, esattamente nelle stesse forme e modalità . Voi mi chiederete…».
* * *
A questo punto l’intercettazione, purtroppo, si interrompe. Dobbiamo immaginarci noi la domanda. E, soprattutto, la risposta.
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