La faccia americana della Fiat

by Sergio Segio | 22 Luglio 2011 6:08

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Detroit. In fondo a Detroit, dove la Woodward incontra il fiume, c’è un grande pugno nero di bronzo. È quello che la sera del 25 giugno 1935 Joe Louis stampò in faccia all’italiano Primo Carnera mandandolo al tappeto e aprendosi la strada verso il titolo mondiale dei pesi massimi. Non un bel comitato di accoglienza. L’ideale inizio della rivolta che trent’anni dopo avrebbe consegnato ai neri il cuore della città . Scaraventando i bianchi nei sobborghi, a venti chilometri da quel pugno. A Royal Oak, dove in queste settimane di gran caldo va in scena il rito dello struscio. A Bloomfield, immersa nel verde e nei laghi. O a Birmingham, dove la Woodward diventa la via principale di un paese con qualche pretesa. Qui è impossibile non notare il negozio di Paul Cicchini, sarto dal 1949. Soprattutto per le camicie rosa e le cravatte dorate messe in bella mostra. Paul è arrivato in America giovane, nel maggio del 1940, con l’ultimo viaggio del Rex: «Ero poco più di un ragazzo. La mia famiglia è di Vasto, a 40 chilometri da Chieti». Fino a due anni fa Cicchini era certamente l’abruzzese più noto di Birmingham: «Lo so che lui abita a duecento metri da qui. Ma in due anni non è mai venuto. E capisco anche perché: lei lo ha mai visto, non dico con un vestito intero, ma nemmeno con la giacca?».
Sergio Marchionne da Chieti, Italia, è sbarcato a Birmingham, Michigan, nella primavera del 2009. Giorni frenentici. L’accordo con Obama è stato appena firmato.
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Arrivano in quattro: oltre all’uomo con il maglione, Richard Palmer, responsabile della finanza, Pietro Gorlier, responsabile del post vendita e della customer satisfaction e Gualberto Ranieri, responsabile della comunicazione. Finiscono al Townsend hotel, un quattro stelle «di stile europeo». Bisogna partire da zero. «La prima regola di Marchionne – ricorda uno dei pionieri – è stata quella di utilizzare il più possibile le competenze locali. Ce lo disse in modo anche crudo: “Non intendo riaprire Ellis Island”». Frase dura per un italo-canadese che non può certo avere pregiudizi verso gli immigrati sbarcati a New York. Ma c’è un perché: è l’Airbus 320 con duecento posti business che tutti i venerdì sera partiva dall’aeroporto privato di Pontiac per riportare in patria le truppe germaniche ai tempi dell’accordo tra Chrysler e Mercedes. «Quei manager parlavano in tedesco alle riunioni e ce lo facevano studiare», raccontano ancora oggi con terrore al quartier generale di Auburn Hills. «Marchionne – dicono gli italiani – ci obbliga a parlare inglese tra di noi anche quando siamo in ascensore». Attenzione verso gli ospiti, una strada per motivare i collaboratori e un modo per farsi accettare nella provincia americana. Da dieci anni Dennis Graham Combs lavora alla libreria Borders di Birmingham: «L’ho visto arrivare all’improvviso. L’ho riconosciuto perché leggo i giornali economici. Ha curiosato tra gli scaffali e ci siamo messi a parlare del suo lavoro: “Stiamo andando bene, siamo sulla strada giusta” – mi ha detto – e io ho capito che la sua fiducia non era tanto in se stesso quanto nella capacità  delle persone della Chrysler. In questa libreria sono passati diversi manager ma nessuno tanto disponibile e informale».
Motivare gli uomini e le donne di Detroit non è facile. Negli ultimi quarant’anni metà  degli abitanti sono scappati. Nel centro, gli scheletri dei grattacieli servono da set ai rave party e da sfondo alle sterpaglie. Posti affascinanti e inquietanti, deliziosi locali di musica jazz sperduti in un autentico cratere sociale, eredità  della rivolta nera del 1967. Dave Bing, il sindaco, cerca faticosamente di raddrizzare la situazione nell’unica città  del mondo dove i ricchi vivono in banlieue e i più poveri si trascinano in downtown. «Il mio obiettivo – spiega Bing – è di spingere le persone a tornare nel centro, per ridare densità  e sviluppo all’area commerciale». E anche per ridurre una rete di servizi ormai tarata su una città  che non c’è più. Detroit è un’anoressica che indossa un extralarge: strade a tre corsie con due automobili per senso di marcia nel raggio di un chilometro. Proprio sulla Woodward, cent’anni fa, il traffico dei carri con cavalli era così intenso che Henry Ford doveva provare i prototipi del “Modello T” di notte per avere la strada libera. «Risalire la china si può. Io ci credo – dice il sindaco – certo i fondi pubblici a disposizione sono pochi».
«Anche noi cerchiamo di dare una mano a Detroit». L’ufficio di Sergio Marchionne è al quarto piano del complesso di Auburn Hills, nell’ala che gli 11 mila impiegati chiamano scherzosamente “banana wing” per via della sua forma arrotondata. Lui preferisce «stare qui tra i miei collaboratori», piuttosto che al quindicesimo piano, nel sancta sanctorum, dove pure c’è un ufficio con il suo nome sulla porta e dove il presidente Bob Kidder mostra orgoglioso la stella della Chrysler: «Anche voi in Italia avete un simbolo così bello?».
Undici piani più in basso Marchionne indossa la sua classica polo nera estiva. Con un’aggiunta: un piccolo rettangolo di stoffa tricolore sulla manica. Per capire quanto l’Italia sia il suo rovello, basta guardare il volto disteso del Ceo che siede a Auburn Hills e confrontarlo con i lineamenti dell’amministratore delegato del Lingotto. Così, sentirlo parlare di come sia diverso l’atteggiamento nei suoi confronti dell’America e dell’Italia diventa quasi un corollario di quella faccia. Eppure quel quadratino di stoffa è un segnale in controtendenza: sarebbe un’assurdità  sulla maglia di uno che avesse deciso di tagliarsi i ponti alle spalle e di trasferire armi e bagagli da questa parte dell’Atlantico. Oggi l’Italia fa tendenza nei sobborghi di Detroit: «La gente entra anche solo per ammirare il vostro stile e il vostro design», dice Niki Serras tra le cucine del nuovo negozio Scavolini di Birmingham. Cinquanta metri più in là  la titolare di Figo, parrucchiere alla moda, mette in palio una 500 tra i clienti: «It’s very nice». Ma non è sempre stato così. Al circolo italo-canadese di Windsor, la città  dove ha studiato all’università , Marchionne ha ripercorso recentemente i momenti difficili della sua vita da immigrato: «Non è facile partire da zero, in una terra sconosciuta con un linguaggio straniero, imparando ad affrontare quei momenti di solitudine che arrivano inevitabilmente». Eppure si parte. Per ragioni familiari ma anche «per imparare un nuovo modo di vivere, diverso da quello che mio padre chiamava la ristretta società  italiana, in cui le amicizie e il ruolo contavano di più del talento».
Non è difficile immaginare se quel lontano giudizio del padre sia rimasto nelle valutazioni odierne del figlio. Certo l’attaccamento alle radici è molto forte: «Mio padre era italiano, mia madre è istriana. Ho vissuto in Canada, in Svizzera, in Francia. Oggi lavoro a Torino e negli Stati Uniti. Sono etnicamente confuso? Preferisco dire che la mia vita è un mosaico in cui ogni tessera ha mantenuto la sua identità ».
Oggi la sfida più importante continua ad essere quella americana. Perché non sono pochi, soprattutto nella destra, quelli che rinfacciano alla Chrysler di essersi salvata anche grazie all’aiuto dei soldi pubblici. Così è stato utile mettere grande enfasi al momento della restituzione di quel prestito, esibendo le spille con la scritta “paid”. Ma non è bastato a parare gli attacchi della Fox, che ancora la scorsa settimana proseguiva la sua campagna sui presunti costumi rilassati degli operai Chrysler filmandoli durante la pausa pranzo mentre bevono birra ( «e forse fumano spinelli») e accostando l’immagine con quella di Obama che li incontra nello stabilimento. Campagna discutibile (qualcuno ha mai indagato sulla pausa pranzo dei giornalisti televisivi?) con l’effetto collaterale di sottolineare che a Jefferson plant la pausa dura trenta minuti ed è a metà  turno.
Non sarà  la campagna sulle pause pranzo a far scendere la popolarità  della nuova Chrysler in Michigan. Che si basa sulla capacità  di tornare ad assumere: «Abbiamo raddoppiato i dipendenti negli ultimi due anni e siamo riusciti a integrarci con il lavoro di squadra degli italiani», dice Pat Walsh, capo dello stabilimento di Jefferson. Assumere vuol dire tornare a dare speranza alla città . Ai suoi sobborghi neri e alla povertà  bianca, che si incontrano e si scontrano lungo il confine ideale della 8 mile road, dove anche i prefissi telefonici sono divisi: lungo la corsia sud, dove comincia il municipio di Detroit, il 313 dei neri. Sul lato opposto, il 586 del sobborgo bianco. È la zona industriale di Warren, dove Chrysler produce il Ram 1.500 e Eminem ha ambientato il film sulla sua vita di rapper bianco oltre il confine: «Qui sei un turista perché questa è Detroit, il 313. E tu sei dell’8 mile road». Proprio da Eminem e dal lungo spot proiettato al Superbowl del 2010, è partita la risalita della Chrysler. Con una canzone che ripercorre le tappe della riscossa sociale dei tanti immigrati sbarcati qui negli ultimi due secoli: «Che cosa ne sa del lusso una città  che è andata all’inferno e che ne è tornata? Ne sa più di quel che pensate perché il lusso nasce dal duro lavoro». Sul video scorre l’immagine forte del pugno di Joe Louis, sulla Woodward. Dato in faccia al mondo.

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