La deriva finanziaria che avvicina le due sponde dell’Atlantico

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Le crisi fiscali di Stati Uniti ed Europa, entità  che eravamo abituati a considerare molto diverse tra loro, diventano sempre più simili: le origini sono diverse— troppo statalismo nella Ue, eccesso di spese militari, una gran mole di interventi di salvataggio e troppi «sconti» sulle tasse nel caso americano— ma la sostanza è comune: rischi di «default» per troppo debito e necessità  di operare una stretta proprio quando un’economia sempre anemica avrebbe bisogno di più «benzina» . Europa e Usa vanno alla deriva insieme e questa non è una buona notizia per nessuno, visto che anche quei Paesi emergenti che ormai producono e vendono soprattutto per l’Asia e l’America Latina, dipendono da mercati finanziari ancora egemonizzati dall’Occidente. Ma il dato comune più inquietante è quello della crescente incapacità  politica di gestire queste crisi sulle due sponde dell’Atlantico.
Fino a qualche tempo fa nel mirino era soprattutto la Ue, incapace di decidere perché divisa in due aree (la Germania sana e preoccupata soprattutto dei rischi d’inflazione contro il «ventre molle» dei Paesi mediterranei) con situazioni e interessi assai diversi. Gli Stati Uniti, più omogenei economicamente e con un unico governo, sembravano comunque più agili. Giorno dopo giorno, però — complice la lunga volata elettorale per le presidenziali del 2012 — anche a Washington spuntano divisioni paralizzanti e una certa tendenza a scherzare col fuoco. Quello di un’intesa «in extremis» rimane lo scenario più probabile, ma il nuovo braccio di ferro iniziato con l’improvviso rifiuto del capo della maggioranza repubblicana alla Camera, John Boehner, di prendere in considerazione ogni incremento del prelievo fiscale disegna uno scenario più accidentato: una Casa Bianca sempre più debole messa alle strette da leader repubblicani a loro volta ostaggio della destra radicale dei «tea party » , ormai incapaci di chiudere l’ambizioso accordo delineato nei giorni scorsi (riduzione del debito di 4.000 miliardi di dollari in dieci anni col ricorso per un quarto di questa cifra a incrementi delle entrate) e costretti a ripiegare su misure molto meno incisive.
Con un tempo-limite per evitare il «default» che è stato da tempo fissato dal ministro del Tesoro Tim Geithner al 2 agosto prossimo, è probabile che le schermaglie andranno avanti ancora per qualche settimana. E intanto cresce in tutti e due i fronti— nella sinistra «liberal» come nella destra radicale dei «Tea Party» — la schiera di quelli che pensano che un’eventuale insolvenza del Tesoro non sarebbe poi un evento così tragico per il Paese, mentre per loro ci sarebbe qualcosa da guadagnare sul piano politico. I «rivoluzionari del tè» sposterebbero ancor più il pendolo del fronte conservatore verso le loro tesi radicali, mentre molti «liberal» sperano che l’enormità  di un evento come il «default» produrrebbe nel Paese uno «shock» capace di interrompere la deriva a destra della politica americana. Ma non è affatto detto che un’economia ancora fragilissima sia in grado di assorbire senza traumi una simile scossa.
Coi debiti che minacciano tutto l’Occidente, banche e finanza di Wall Street di nuovo a rischio e le bolle speculative che incombono su una Cina che corre il pericolo dell’iperinflazione, è da folli tirare la corda fino a portare davvero Washington all’insolvenza. Lo ha ripetuto anche ieri il ministro del Tesoro, Tim Geithner, ma le sue parole sono indebolite dalle voci (da lui smentite ma, pare, fondate) che lo danno in uscita dall’Amministrazione, appena varata la manovra sul debito pubblico (l’ultimo superstite del team economico che si era insediato alla Casa Bianca con Obama nel gennaio del 2009). Così, alla fine, è scesa in campo la stessa Christine Lagarde che ha dedicato il suo primo intervento «di peso» da capo del Fondo Monetario a certificare che un’eventuale insolvenza, anche limitata, degli Stati Uniti, avrebbe conseguenze disastrose per il Paese e per l’intero sistema finanziario internazionale.
Il sacrificio (che forse è anche un mezzo passo falso) della Lagarde, costretta a spendere parte del suo patrimonio di credibilità  su una disputa che dilania la politica Usa, contribuirà , magari, ad evitare il peggio. Ma rimane forte la preoccupazione per la prospettiva di un compromesso al ribasso come quello proposto sabato notte da Boehner: niente aumento delle entrate (come quello da lui stesso negoziato in via riservata per settimane) e taglio delle spese limitato a duemila miliardi di dollari. Una manovra dimezzata rispetto a quella che era stata impostata originariamente, ma, soprattutto, basata su scelte che spaccano i due fronti su linee di frattura ideologiche.
Quando il leader conservatore, incalzato dai suoi, toglie le tasse dal tavolo del negoziato, spinge i democratici a rimangiarsi anche le aperture sui tagli di previdenza e sanità  perché «non possiamo accettare che il prezzo del risanamento venga pagato per intero dai ceti medi e dagli anziani» , come denuncia il deputato democratico Chris Van Hollen.
Una questione ideologica e di distribuzione dei redditi in un Paese nel quale la ricchezza è sempre più «polarizzata» , ma anche un’interpretazione volutamente distorta di alcuni dati economici. Il pessimo andamento del mercato del lavoro a giugno (appena 18 mila posti in più e disoccupazione ulteriormente cresciuta al 9,2%) viene, infatti, letto dai repubblicani come il risultato dell’eccessiva presenza dello Stato in economia, mentre in realtà  negli ultimi due anni sono state proprio le amministrazioni locali e federali in crisi a cancellare un milione di posti di lavoro.
Un deficit in parte compensato dai privati che, pur in recupero, non sono, però, riusciti a dilatare di molto l’offerta di occupazione, nonostante un livello di prelievo fiscale che è il più basso degli ultimi decenni.


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