La bandiera nera di un governo in agonia

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Queste parole i nostri lettori le conoscono ormai a memoria per averle lette infinite volte su queste pagine, ma quella qui sopra riportata è una citazione: le ha scritte ieri il direttore del Sole 24 Ore, Roberto Napoletano, nell’articolo di fondo del suo giornale. È il giornale della Confindustria e Napoletano non è certo un giornalista di sinistra e tuttavia sono nette e impietose e altrettanto impietoso è il seguito dell’articolo. A nostro avviso sono l’esatta rappresentazione dello stato d’animo dei cosiddetti ceti moderati che ormai non esprimono più soltanto disagio ma una vera e propria disperazione.
Un’altra prova di quella disperazione ce la fornisce Sergio Romano in un articolo sul Corriere della Sera con il quale risponde alla lettera che Giulio Tremonti gli aveva indirizzato per giustificarsi sulla questione dell’appartamento a lui affittato dal suo amico e collaboratore Marco Milanese.
Romano non è certo un bolscevico, ma l’asprezza del tono e il merito dei suoi giudizi nei confronti del ministro dell’Economia sono tali che Berlusconi l’avrebbe sicuramente ascritto alla genia del Comintern se non fosse che il Cavaliere è animato da un vero e proprio odio verso il suo ministro che vorrebbe veder morto ma del quale non può disfarsi senza mettere a repentaglio il suo governo sempre più traballante.
Questo complicatissimo rapporto, politico e psicologico, tra il presidente del Consiglio e il suo superministro dell’Economia è un altro dei tanti nodi che costringono il nostro Paese ad una assoluta immobilità  salvo i pochi provvedimenti che servono a mettere al riparo Berlusconi dalle sentenze della magistratura.
Se cade Berlusconi cadrebbe anche Tremonti che dopo lo scandalo Milanese (che tende ad allargarsi giorno dopo giorno) non ha più alcuna “chance” di potergli succedere a Palazzo Chigi. Ma se cade Tremonti comincerebbe a sussultare l’intero edificio governativo. Perciò «simul stabunt, simul cadent» con gli effetti che questa convivenza forzosa proietta sul governo: un gruppo di naufraghi su una zattera senza timone né timoniere.
Il Paese deve affrontare un mare sempre più tempestoso in queste condizioni, dove ad una situazione economica obiettivamente difficilissima si affianca una crisi di credibilità  che coinvolge con la stessa intensità  il “premier” e il superministro, avvinghiati l’uno all’altro dall’odio e dall’istinto di sopravvivenza.
* * *
Ma perché le banche italiane, solide e solvibili come abbiamo più volte scritto, sono ritenute “propaggini del debito pubblico” e ne sopportano ogni giorno le conseguenze sui mercati finanziari? Al punto di registrare una capitalizzazione di Borsa che in situazioni normali stimolerebbe numerosi tentativi di Opa nei loro confronti?
Secondo stime ufficiali la percentuale dei titoli di Stato nel loro portafoglio e in quello di privati cittadini e imprese italiane affidabili raggiunge il 56 per cento mentre la percentuale dei titoli del nostro debito in mani straniere non supera il 44, un rapporto che dovrebbe evitare la qualifica di “propaggini”.
Purtroppo però le cose non stanno propriamente così. Da un rapporto analitico della Morgan Stanley i titoli italiani in mano a istituzioni, banche e investitori stranieri ammontano a 790 miliardi contro 787 in mano a banche, imprese e investitori italiani. Il rapporto sarebbe dunque del 50 per cento.
Ma, osserva la Morgan Stanley, se si aggiungono ai detentori stranieri anche i titoli intestati a italiani ma gestiti dall’estero, la quota “straniera” sale al 56 per cento del totale.
Questa proporzione è del tutto anomala ed accresce il rischio che i fondi monetari e le banche d’affari internazionali vendano titoli italiani per alleggerire i portafogli e sostituirli con “asset” più affidabili.
Sorge la domanda del perché l’affidabilità  dei titoli italiani sia diminuita. Molto dipende dal nostro “spread” con il Bund tedesco che viaggia ormai dai primi di luglio intorno ai 300 punti-base e nelle ultime settimane si colloca al di sopra dei 330.
In più la situazione politica italiana è giudicata universalmente volatile, la credibilità  del governo è minima, il tasso di interesse delle nostre emissioni è salito al 6 per cento e tale sarà  in autunno quando il Tesoro dovrà  emettere una massa notevole di titoli. In queste condizioni l’onere del debito pubblico a carico del Tesoro si è già  mangiato un terzo della manovra appena votata dal Parlamento. La crescita è zero. Le previsioni della Confindustria parlano addirittura di un Pil negativo nel 2012.
Speriamo forse che i mercati dormano sonni tranquilli fino alla fine dell’anno?
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È evidente che queste analisi tecniche e politiche che servono a spiegare le reazioni negativi dei mercati finanziari si intrecciano con la questione morale.
Il declino della moralità  pubblica è ormai un dato oggettivo, testimoniato dalle iniziative della magistratura inquirente e da quella giudicante.
Coinvolgono il presidente del Consiglio, il ministro Romano, il deputato Papa, il deputato Milanese, il giudice Capaldo, l’ex capo di Stato Maggiore della Guardia di Finanza, Adinolfi. Lambiscono Giulio Tremonti. Investono anche l’ex capo della segreteria di Bersani, Filippo Penati.
Le reazioni di Bersani e del Pd sono state molto ferme. Manca la sospensione di Penati dal partito. Abbiamo già  scritto che a noi sembra necessaria e urgente. Ma sull’altro lato dello schieramento i comportamenti sono ben diversi e le iniziative legislative sono vergognose, tanto più perché rappresentano il solo soprassalto di vitalità  di un governo morente.
Processo lungo e prescrizione breve: questi sono gli scatti del governo. Sembrano gli ultimi segnali, più automatici che vitali, d’un corpo che si disfà . Il Presidente Napolitano è ben consapevole di quanto sta accadendo. Ha incontrato tutte le parti sociali firmatarie del documento che invoca «discontinuità ». Ha incontrato i partiti di maggioranza e quelli di opposizione. Aspetta che anche Bossi si metta a rapporto. Ma il clima è estremamente pesante.
Enrico Berlinguer, nel luglio del 1981, descrisse la questione morale che stava erodendo lo Stato. Abbiamo rievocato giovedì scorso la sua intervista a «Repubblica» e il significato che ebbe allora la sua denuncia. Oggi tuttavia la condizione della moralità  pubblica è molto più grave.
Il malaffare di allora serviva a pilotare consensi ai partiti; quello di oggi serve invece a procurare benefici personali a chi inalbera la bandiera del Re. Ricordiamo ancora le parole della Minetti quando aspettava una candidatura al Parlamento che fu poi trasformata nella sua partecipazione al consiglio della Regione lombarda: «Potrei rendere gli stessi servizi a Lui e pagherebbe lo Stato».
Hanno privatizzato i benefici pubblicizzando la corruzione: questi sono i frutti avvelenati del berlusconismo. Nel contratto con gli italiani stipulato a «Porta a Porta» nel 2001 non erano previsti ma aveva già  avvelenato le radici del partito azienda dalle quali è nata la Seconda Repubblica.
L’intreccio è dunque perverso: questione morale, questione politica, errori e manchevolezze d’una manovra finanziaria che ha il solo effetto di comprimere il potere d’acquisto del ceto medio-basso, penalizzando consumi e investimenti.
In realtà  l’anomala accoppiata Berlusconi-Tremonti dovrebbe andarsene a casa lasciando al Capo dello Stato il peso delle necessarie decisioni. Ogni indugio aumenta il costo che peserà  sulle spalle degli italiani.


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