La Banca che arraffa la terra
Sempre più spesso grandi investitori di paesi ricchi siglano contratti d’affitto decennali per appezzamenti di decine di migliaia di ettari in Africa o in America Latina o in alcuni paesi asiatici grandi e poveri. Costano poco, spesso pochissimo e poi sono beni rifugio per definizione. Gli stati petroliferi arabi lo fanno per garantirsi le scorte di derrate alimentari necessarie per le loro popolazioni, le principali compagnie private dell’agro-business per impiantare monocolture di biocarburanti, mais o soia destinati all’esportazione.
Da più parti è ormai partito un preoccupato grido d’allarme: il land grabbing è la nuova frontiera del colonialismo e continuando di questo passo inciderà sempre di più sulle fragili economie dei paesi in via di sviluppo, tanto da minare la loro sovranità alimentare. Alcuni governi del sud del mondo stanno cercando di porre delle limitazioni, sebbene molti altri invece incentivano tale attività per «fare cassa». Nel suo rapporto Rising Global Interest in Farmland («interesse crescente per le terre agricole»), del 2010, la Banca mondiale ha riconosciuto che dalla crisi del cibo del 2008 si è registrato un fortissimo aumento dell’interesse di grossi investitori sul mercato dei terreni agricoli, anche se poi si dichiara dell’avviso che il land grabbing non costituisca un vero e proprio pericolo.
In realtà la Banca ha anche accennato alla natura speculativa di tali operazioni, tanto che numerosi accordi sono stati siglati tra governi e corporation alla totale insaputa delle comunità locali, alle quali spesso non sono stati riconosciuti i dovuti risarcimenti. Un fattore che alla prova dei fatti non sembra preoccupare la più grande istituzione multilaterale di sviluppo, che in teoria dovrebbe occuparsi della lotta alla povertà , ma che in pratica continua a favorire i guadagni delle imprese private. Tanto per citare un esempio, i banchieri di Washington intrattengono da anni un rapporto molto privilegiato con la Calyx Agro. La compagnia argentina fa capo al colosso francese Louis Dreyfus Commodities, che insieme alla Cargill è uno dei big del comparto alimentare. Il compito della Calyx è arraffare quanto più terreni possibili in tutta l’America Latina per conto dei suoi investitori internazionali, tra i quali ci sono la Aig e alcuni hedge funds di rilievo.
In Sud America le monocolture estensive, con utilizzo di organismi geneticamente modificati e pesticidi industriali, è un trend in aumento esponenziale. Le piantagioni di soia coprono un quarto dei terreni coltivabili in tutto il Paraguay, mentre in Brasile l’espansione è stata di circa 320mila ettari l’anno. Nel paese più vasto dell’America Latina il mercato dei pesticidi raggiunge un valore complessivo di 5 miliardi di dollari – quattro volte il totale del 1992.
Per pulirsi la coscienza e dare l’impressione di adempiere al mandato di lotta alla povertà , la Banca mondiale di recente ha proposto sette principi da seguire per gli investimenti agricoli nei paesi più poveri, che vanno dal rafforzamento della trasparenza al rispetto dei diritti di proprietà , dal rafforzamento della sicurezza alimentare alla possibilità di creare impatti socio-ambientali positivi. Peccato che queste regole siano ferocemente criticate dalle comunità , dalle organizzazioni della società civile e dalle ong per un semplicissimo motivo: sono su base volontaria. L’ennesimo regalo dei banchieri di Washington alle big corporation.
Related Articles
Merkel: “Altri 5 anni per uscire dalla crisi”
La Cancelliera: rigore per attirare investimenti. E Roesler: niente sconti ad Atene
Artigiano, senza lavoro, s’impicca
Accade a Scorrano, un piccolo paese di circa 7.000 anime, a 35 chilometri da Lecce, ma accade anche nel Veneto, nel bellunese, e nel cosentino: la crisi, nel Nord come nel Sud del Paese, miete vittime, persone che decidono di suicidarsi perché non riescono ad affrontare il futuro, soffocate dai debiti e dall’incertezza.
«Richiamati in servizio ma avevano paura»
Non dovevano essere lì. Non volevano esserci Mohamad Azarg, quarantaseienne, e Kumar Pawan, ventisettenne, i due operai indiani morti sotto le macerie di una fabbrica, la Meta, a San Felice.