Italia in saldo, rischio scalate
Ma la crisi di sfiducia si è riflessa anche su molte società di servizi e industriali. Oggi i nostri istituti di credito maggiori valgono in Borsa la metà di diversi concorrenti diretti europei, i pochi gruppi manifatturieri di dimensioni paragonabili ai colossi multinazionali hanno capitalizzazioni di gran lunga inferiori ai loro competitor. I prezzi da saldo scateneranno una corsa all’acquisto dell’azienda-Italia? Se si guarda solo agli ultimi mesi qualche timore è legittimo.
Il maggior gruppo alimentare Parmalat è stato conquistato dai francesi di Lactalis, il controllo di Edison sta traslocando oltralpe da Edf, Bulgari è stata ceduta alla multinazionale parigina del lusso e del cibo Lvmh, il destino di Alitalia appare già segnato e porta anche in questo caso in Francia. Preoccupazioni che attraversano anche il Parlamento, certo sollecitato dai casi Parmalat e Edison, che trasversalmente e in modo bipartisan invoca «strette» anti Opa, cioè condizioni che rendano più difficili gli «assalti» con offerte pubbliche di acquisto, o l’intervento della cassaforte del Tesoro Cdp.
Certo, va considerato che se l’Italia sta peggio, almeno sotto il profilo della tenuta contro la speculazione, ed è in Borsa più debole in modo strutturale perché i grandi fondi internazionali guardano al nostro Paese sempre con un’attenzione limitata a pochi titoli, la crisi è globale. Ciò significa che sull’appetibilità dei prezzi fanno premio nella maggior parte dei casi l’incertezza, la scarsa visibilità dei valori, la propensione più limitata a investire e impegnare stabilmente nuovi capitali, l’attenzione selettiva nei piani di espansione rivolti più che altro a Far East e Paesi emergenti. A ciò si aggiunge un «rischio Paese» dettato anche dai «lacci» che tutti conoscono: complicazioni legislative e amministrative che rendono poco praticabili gli investimenti. Però è anche vero che per anni Enrico Bondi ha ristrutturato e meditato consolidamenti, ma qualche mese fa è stato colto di sorpresa da Lactalis, società non quotata. E a nulla è valso l’appello agli imprenditori italiani, che non sono riusciti a confezionare nemmeno l’ipotesi di una controfferta. E Bulgari ha ceduto a Louis Vuitton, o Brioni a Pinault, perché è difficile dire no a offerte vere e allettanti.
L’Italia è dunque «a sconto» , anche se non sempre «acquistabile» , almeno in teoria. Nel senso che il nostro capitalismo è molto familiare, ancora molto statale e le aziende quotate sono poco contendibili: secondo recenti studi di Consob e Università Bocconi lo sono solo il 12%delle società di Borsa italiana (32 su 271). E pesano solo per il 20,7%, un quinto, sull’intera capitalizzazione di Piazza Affari. Il resto del listino è blindato dalle controllate: di diritto (129), di fatto (49) e da patti parasociali (8). Le poche matricole che vanno a quotarsi lo fanno mettendo sul mercato il minimo capitale indispensabile. D’altra parte, dopo che Fiat nel 2010 ha attribuito in statuto poteri antiscalata al consiglio, l’esempio non ha avuto in pratica seguito.
Non c’è bisogno di «pillole avvelenate» quando ci sono già difese come i tetti al possesso nelle banche popolari, nelle municipalizzate, nei colossi pubblici, in alcune banche privatizzate, e sopravvive la golden share. Tutto vero, ma quando l’incertezza sarà meno sovrana e a vincere tornerà chi avrà assegni da staccare, l’Italia «blindata» potrebbe manifestarsi più fragile. E quella familiare più disposta a cedere alle lusinghe.
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