Immigrati nell’albergo: “Non chiediamo soldi, ma un’opportunità  di lavoro”

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MILANO – “Vorremmo chiedere alla città  di aiutarci a prendere i documenti il più presto possibile. Non chiediamo soldi: se anche li ricevessimo in elemosina, finirebbero subito. Quello che vogliamo è un’opportunità  di lavoro”. Queste l’appello che il ghanese Chas, uno dei 270 migranti ospiti del residence Ripamonti, ha rivolto dall’ambone della Chiesa di Maria Immacolata alla comunità  di Pieve Emanuele (Mi), durante un incontro organizzato dal parroco don Benvenuto Riva. Dal 12 maggio l’albergo del paese è stato trasformato in una sorta di mega centro di pronta accoglienza per richiedenti asilo, gestito dalla Croce rossa italiana. 

I profughi di Pieve Emanuele non riescono ancora a capire quando potranno cercare un lavoro. Per ora sono bloccati al residence, senza nulla da fare. “Non faccio che andare su e giù dalla camera alla piazza”, dice un ragazzo ghanese che si fa chiamare Peace. “Poi non capiamo perché alcuni hanno in mano certi documenti ed altri hanno già  un permesso di soggiorno regolare”, aggiunge.

“Non c’è stato alcun trattamento dispari, si tratta di richiedenti asilo che stanno tutti attraversando  i processi previsti dalla normativa vigente. Tutti hanno in mano lo stesso tipo di documenti”, spiega Giuseppe Falcone, presidente dell’Associazione poliziotti italiani di Pieve Emanuele, che con i suoi volontari ha cercato fin dal primo momento di aiutare i rifugiati ad orientarsi nella complessa normativa italiana. “Si sono comunque già  recati tutti in Questura per depositare le impronte digitali e lasciare le loro generalità  –aggiunge- . I primi sono anche riusciti a verbalizzare la loro domanda d’asilo e ottenere così un permesso di soggiorno di sei mesi con il quale possono cercare lavoro”. Ciò che non è ancora chiaro sono i tempi con cui la Questura rilascerà  a tutti il permesso di soggiorno. Alcuni sono stati convocati per la seconda metà  di ottobre e fino a quel momento non possono lavorare. “Non capisco perché servono tutti questi documenti –ribatte Peace-. In Libia era tutto più facile, si poteva iniziare a lavorare subito, senza aspettare tanto tempo”.

I problemi dei profughi non si limitano solo alla poca chiarezza sui tempi per la loro regolarizzazione. Una delle difficoltà  sta anche nell’intendersi su quali sono le esigenze degli ospiti del residence. “Continuano a donarci vestiti, sapone e spazzolini da denti ma ciò di cui abbiamo bisogno ora è una crema per il corpo e delle carte telefoniche per chiamare i nostri familiari. Ma senza lavoro, come raccogliamo i soldi?”, si chiede Peace.

Non fosse stato per la guerra, raccontano, non avrebbero mai lasciato la Libia. “Là  nessuno chiede l’elemosina, c’è lavoro per tutti”, dice Daniel. Quando ha attraversato il Mediterraneo, per sbarcare poi a Lampedusa, non ha dovuto pagare nessuno. “Sono stati dei pescatori libici ad accompagnarmi, poi una nave della Guardia Costiera italiana mi ha recuperato”, racconta. Misurata, dove viveva, era ormai diventata un inferno: “Anche i ragazzini di 12 anni ti puntano il fucile addosso”. E non aveva alcun mezzo per raggiungere il Ghana, dato che le linee aeree erano ormai fuori uso dal momento in cui la Nato ha iniziato i bombardamenti sulla Libia. (Lorenzo Bagnoli)

 

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