by Sergio Segio | 3 Luglio 2011 10:46
Forse è utile ricordare che è stato Jean-Francois Lyotard, filosofo francese, a fare del termine narrazione un lemma del vocabolario politico dei nostri anni, quello, per intenderci, che Nichi Vendola ha reso popolare nella sua originale prosa politica. Nel suo La condizione postmoderna (1979) Lyotard decretava la fine delle grandi narrazioni «metafisiche» che avevano sin lì influenzato gli uomini e le donne dell’Occidente. L’illuminismo, l’idealismo, il marxismo, queste grandi e totalizzanti interpretazioni del mondo apparivano ormai esaurite, di fronte ai processi di disincanto che attraversano le psicologie collettive, al pluralismo culturale che si diffonde tra gli individui, al processo di atomizzazione della società . Per la verità , io credo che la condizione definita postmoderna da Lyotard non fosse e non sia che il dispiegamento pieno dei caratteri fondativi della modernità . Quelli, per intenderci, intravisti con sovrana capacita anticipatrice da alcune grandi menti, come quella di Marx, di Nietzsche o di Weber. Chi non ricorda il famoso passo del Manifesto «tutti gli antichi e arrugginiti rapporti della vita con tutto il loro seguito di opinioni e credenze ricevute e venerate per tradizione si dissolvono, e i nuovi rapporti che subentrano passano fra le anticaglie (…) Tutto ciò che aveva carattere stabile…. si svapora, tutto ciò che era sacro viene profanato e gli uomini si trovano a dover considerare le loro condizioni di esistenza con occhi liberi da ogni illusione». Non parlano, queste parole, della nostra condizione? E Nietzsche nella Gaia Scienza aveva quasi urlato: «Anche gli dei si decompongono. Dio è morto!» Quand’egli osservava « il deserto che avanza», anticipava quel dilagare del nichilismo che il processo storico avrebbe trasformato nella stoffa del nostro quotidiano. E L’Entzauberung il «disincanto» del mondo, intravisto da Weber, aveva bisogno di almeno un secolo per diventare un fenomeno di massa. La «società liquida» che Bauman oggi ci rappresenta non è che la modernità pienamente realizzata.
Quel che tuttavia stupisce e di cui importa qui parlare è il fiorire, malgrado tutto, di continue nuove narrazioni che si fanno strada, come farfalle dalla crisalide del bruco, dalla consunzione delle precedenti “immagini del mondo”. Tutta l’età contemporanea ne è teatro. La più grande vittima delle trasformazioni capitalistiche, ma anche degli orrori perpetrati dalle classi dirigenti europee, è stata l’idea di progresso, forse il più lungo racconto dell’età contemporanea: la grande fede di una umanità in marcia verso i lidi dell’emancipazione universale. Nel 1937, dopo i massacri della prima guerra mondiale e quando le ombre del nazifascismo si allungavano sull’Europa, lo storico olandese Johan Huizinga poteva irridere quella tarda eredità dell’illuminismo, degradandola quasi a credenza superstiziosa, al «concetto puramente geometrico del procedere innanzi». E dopo è seguito l’Olocausto e la carneficina della seconda guerra mondiale, che hanno seppellito, sembrava definitivamente, ogni possibile narrazione trionfante per l’avvenire. E invece non è stato così. Nella seconda metà del novecento è fiorita una nuova storia, la grande narrazione dello sviluppo, in cui siamo in parte tutt’ora immersi. La crescita economica continua e la distribuzione della ricchezza a un numero crescente di cittadini ha reincarnato, in forme nuove e per alcuni decenni, la vecchia epica del progresso ottocentesco. Il movimento operaio e i partiti di sinistra hanno incarnato perfettamente questo nuovo immaginario, non meno di altre formazioni e gruppi moderati. Ricordate Togliatti: «Veniamo da lontano e andiamo lontano»? Segno, probabilmente, di una predisposizione irrinunciabile degli uomini alla speranza, alla proiezione della propria condizione presente in un futuro sempre perfettibile, al bisogno, comunque, di sentirsi dentro una storia dotata di senso. È su questa predisposizione fondativa che la politica moderna ha giocato le sue carte, tanto in chiave conservatrice che progressista o rivoluzionaria. Occorrebbe chiedersi: non è costantemente all’opera nel fondo della politica, prima e dopo Machiavelli, un’ars retorica, un’arte della persuasione che si modella secondo narrazioni? Non risponde la politica anche a questo irrinunciabile bisogno dell’umano immaginario?
Negli ultimi 30 anni anche le élites della borghesia hanno sentito il bisogno, per dare corpo a una controffensiva capitalistica su larga scala, della narrazione neoliberista. Un romanzo di reincarnazione del progresso al cui centro si ergeva la libertà degli individui, l’eliminazione delle burocrazie, il premio al merito, il libero mercato come supremo ed equo regolatore delle relazioni sociali. Questa aura leggenda ha avuto una gigantesca capacità di fascinazione, al punto da riuscire a parassitizzare anche i vecchi partiti della sinistra. Il termine è preso a prestito dall’entomologia. Alcuni insetti inoculano le proprie uova nel corpo di altri insetti, così che le larve nasciture possano nutrirsi con il corpo dell’ospitante. Le idee di liberalizzazione, privatizzazione, competizione, flessibilità si sono nutrite con il corpo ospitante dei vecchi partiti di sinistra, che ne sono usciti spolpati. Ma proprio oggi, guardando alle parole, si può scorgere nitidamente la fine dell’ultimo grande racconto del capitalismo contemporaneo. Che cosa sanno prometterci oggi gli apologeti dello sviluppo? Privatizzazioni, liberalizzazioni, detassazioni, ecc. Ma quale futuro della nostra condizione possiamo intravedere dietro queste promesse? Quale pubblica felicità ? Dopo trentanni di di propaganda alla libertà degli individui il fantastico risultato è che le prossime generazioni vivranno peggio delle precedenti, i figli peggio dei padri. Per la prima volta nella storia contemporanea dell’Occidente in un racconto politico manca il lieto fine. Mentre le parole sono sempre le stesse, da trent’anni. E nel grande mare del libero mercato, dove tutto diviene rapidamente obsoleto, queste consunte parole sono ormai diventate rifiuti, come le merci del consumismo quotidiano.
I beni comuni, è ormai divenuto chiaro, posseggono una straordinaria potenzialità di narrazione. Essi raccontano una storia secolare. L’avanzare dei modi di produzione capitalistici e il progressivo appropriarsi da parte dei privati delle terre, dei boschi, delle acque che prima appartenevano alle comunità . Tutta l’età contemporanea è una storia sempre più accelerata di predazioni private. Possediamo dunque un fondo storico di rivendicazioni di straordinaria potenza. Ma ci sono beni comuni, dipendenti dal vecchio welfare, che si possono rimettere al centro della narrazione, perché mutilati e messi in forse dalle aggressioni degli ultimi anni. Il sistema medico nazionale in Gran Bretagna, poi esteso ad altri paesi europei, ha reso possibile la difesa universalistica del bene comune della salute: un bene, quest’ultimo, la cui difesa consente di contrastare e battere gli interessi privati in ambiti amplissimi della vita sociale, dalla produzione di energia atomica allo smog cittadino. Allo stesso modo possono essere rivendicati con nuovo vigore il bene comune della conoscenza, della formazione pubblica garantita a tutti, un diritto nell’età dello sviluppo che ora si presenta in nuove forme. Ma al di la di ogni elencazione, e mettendo da parte questioni di definizione teorica, quel che vorrei sottolineare è che il concetto di bene comune possiede una fertilità di scoperta e applicazione assolutamente senza confronti. E’ sufficiente pensarci un po’ e subito si scopre che bene comune è l’etere, privatizzato da tante potenze economiche, l’aria che respiriamo, gli spazi urbani della nostra mobilità quotidiana, la bellezza del paesaggio, il tempo di vita. In realtà , la rivendicazione dei beni comuni è in gran parte l’espressione di un bisogno soggettivo degli individui di riscoprire il tessuto sociale connettivo che li può strappare all’isolamento e all’atomizzazione senza coartare la loro libertà . È il racconto politico che tende a proteggere gli individui dall’angoscia della modernità , proiettandoli in una storia ricca di senso e in grado di illuminare criticamente i disagi del presente. Raccorda interessi e bisogni multiformi e fornisce a essi una prospettiva conseguibile con la partecipazione, quella prospettiva che negli ultimi decenni è scomparsa dai cieli delle masse popolari e di tutti noi. Infine, non va dimenticato, tale racconto confligge apertamente con la contraddizione fondativa del capitalismo: la produzione sociale di un immenso flusso di ricchezza entro i vincoli stretti dell’appropriazione privata. E oggi, dentro tale contraddizione, non si trovano soltanto delimitati stock di beni e risorse, ma la Terra intera, la casa comune degli uomini, messa in pericolo dal saccheggio privato di forze che minacciano l’universalità dei viventi. E allora si comprende quale elevato grado di consenso tra tutte le classi sociali, culture e religioni, lungo tutte le geografie del pianeta, quale slancio e progettualità può fornire a tutte le nuove generazioni il racconto dei beni comuni.
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