Il pentito di mafia abbandonato dai suoi suicida in Liguria
Lo aveva appreso lontano da Palermo, Giuseppe Di Maio, 34 anni, il pentito «costretto» l’anno scorso a rivoltarsi contro la «famiglia» , poi abbandonato dalla moglie che non gli faceva più vedere i loro due bimbi, additato dai parenti, eccetto la madre che venerdì ha chiamato mille volte quel cellulare senza vita.
Fino a quando ha scongiurato un funzionario del Servizio centrale protezione di mandare qualcuno nel rifugio segreto, un anonimo appartamento alla periferia di Genova. «Controllate subito perché il cuore mi dice che ha combinato qualcosa di brutto» , invocava la povera donna, due ore dopo su un aereo per raggiungere e piangere il corpo del figlio, tirato giù dal cappio rudimentale che s’era stretto al collo per stritolare la solitudine. Un altro suicido sul crinale in cui gli ingranaggi psicologici dei mafiosi e di quanti tentano di liberarsi dalle ferree regole di Cosa Nostra si sfiorano e stridono triturando esistenze come quella del «picciotto» che nell’aprile 2010, appena arrestato, rimase di sasso ascoltando le sue stesse intercettazioni contro il «padrino» di Santa Maria del Gesù, cioè contro il suocero, accusato di violenze, pestaggi e pistolettate contro spacciatori ed esattori infedeli nella borgata famosa per il cimitero dei nobili e per la cosca un tempo dominata da Pietro Aglieri.
Di «un labile profilo psicologico» avevano parlato più volte la giovane e brava pm che se l’era trovato davanti, Roberta Buzzolani, il capo della Mobile Maurizio Calvino e l’ex capo della Catturandi passato al servizio protezione, Cono Incognito. Le indagini avevano incastrato il «picciotto» dubbioso sui metodi del suocero. Le intercettazioni svelavano non solo i blitz del clan, ma anche una sua storia d’amore con un’altra donna, un tradimento che la moglie avrebbe comunque appreso. E Di Maio era terrorizzato. «Si sentiva in un vicolo cieco» , ricorda la Buzzolani, da un mese fuori Palermo per un altro incarico assunto mentre Lo Bocchiaro e gli altri boss venivano condannati.
Una coincidenza che ha fatto balenare l’ipotesi della vendetta fino a ieri sera esclusa dagli inquirenti, anche se la Procura ha disposto comunque l’autopsia. «Io volevo uscire da questa cosca, “schifiato”dai metodi di mio suocero. Un conto è fare i mafiosi a raccogliere il pizzo, un’altra cosa sparare ai cristiani…» , si dannava un anno fa. Terrorizzato nel riferire il fulminante aut aut del suocero: «O stai dentro, o stai fuori morto» . Firmò così le prime ammissioni poi ritrattate e poi di nuovo confermate in un’altalena di angoscia solo in parte attenuata dalla saltuaria presenza dell’altra donna, la fidanzata che fino a poco tempo fa gli uomini del Servizio protezione hanno accompagnato a Genova.
Un rapporto instabile, una fatica che la ragazza non reggeva. E, mancato anche questo supporto, il picciotto che avrebbe voluto cambiare vita se l’è tolta. È accaduto il contrario in altri casi, a partire da storici pentiti di mafia come Antonino Calderone quando Falcone capì con Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli di aver trovato una alleata nella moglie del boss, decisa a salvare il marito e i figli stando dalla parte giusta. Al contrario di quanto accade oggi «con le donne che spesso assumono la gestione finanziaria del clan, portatrici dei disvalori della criminalità organizzata più dei loro uomini, anche attraverso la minaccia di non far loro più vedere i figli» , come diceva pochi giorni fa il procuratore aggiunto di Palermo Teresa Principato. Quasi un identikit della moglie di Di Maio, forse, anche lei «costretta» a lasciare solo il marito-pentito.
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