Il debito estero e l’inutile manovra di Tremonti

by Sergio Segio | 30 Luglio 2011 6:44

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Il disavanzo dipende da un eccesso delle uscite sulle entrate relative ad importazioni ed esportazioni di beni e servizi, redditi verso e dall’estero e trasferimenti, e si è tradotto in una posizione patrimoniale netta sull’estero negativa: nel 2010 il 24,3% del Pil. Per l’Italia, il totale dei debiti è superiore ai crediti verso l’estero, comprendendo in questi ultimi anche le riserve in oro e valuta estera tenute da Bankitalia.
I Paesi in crisi dell’Unione monetaria, come Grecia e Portogallo, mostrano, oltre ad un elevato debito pubblico, disavanzi prolungati nel tempo del conto corrente con l’estero e una posizione patrimoniale netta sull’estero negativa. La posizione negativa sull’estero non è una causa secondaria della crisi, come il caso della Germania dimostra; questo Paese ha un debito pubblico elevato (in valore assoluto quasi uguale a quello italiano), ma la posizione netta sull’estero è positiva. Un disavanzo del conto corrente va finanziato con prestiti dall’estero. Crescendo la domanda di prestiti, il ricorso al credito diventa sempre più costoso perché aumenta il rischio d’insolvenza. Ciò fa aumentare il tasso d’interesse e fa crescere il disavanzo stesso e il debito pubblico del paese debitore.
Per superare la crisi occorrono politiche che riducano il disavanzo del conto corrente. La riduzione della spesa pubblica migliora il conto corrente, soprattutto perché contrae le importazioni, ma nello stesso tempo diminuisce i redditi e la domanda aggregata. La vendita di attività  pubbliche diminuisce il debito pubblico, ma è senza effetti sul conto corrente con l’estero. Le «riforme» del sistema produttivo producono effetti solo nel lungo periodo, e intanto il disavanzo del conto corrente continua ad aggravarsi.
La manovra correttiva dei conti pubblici presentata in questi giorni dal Governo italiano, riduce soprattutto la domanda aggregata e le importazioni. La crescita delle esportazioni è lasciata alla capacità  di penetrazione delle imprese italiane nei mercati internazionali. Ma le carenze del nostro sistema produttivo (insufficienza di capitale umano e di infrastrutture ed elevato costo dell’energia) rendono le imprese italiane deboli nei mercati esteri. Non c’è niente nella manovra che favorisca un miglioramento sostanziale del conto corrente con l’estero. Questo tipo di politica economica è la conseguenza dell’idea che il debito pubblico sia il problema principale dell’economia italiana. Tanta enfasi sul debito pubblico consente di insistere sulle privatizzazioni, così da potere lasciare alle imprese private la gestione di settori profittevoli dell’economia. Le imprese italiane sono continuamente alla ricerca di profitti monopolistici, come mostra il recente tentativo di ottenere la gestione delle risorse idriche. Inoltre, la stagnazione dell’economia fa diminuire il potere contrattuale dei sindacati.
E’ necessaria una politica che rilanci le esportazioni. Non potendo ricorrere ad una svalutazione, una possibilità  è la riduzione del costo del lavoro per mezzo di un sussidio permanente, proporzionale al numero di lavoratori dipendenti impiegato dalle imprese (con l’esclusione degli intermediari finanziari e delle imprese di assicurazione), ossia la riduzione del cuneo fiscale. Il sussidio farebbe diminuire i prezzi alle esportazioni, aumentare la domanda aggregata e l’occupazione, e anche ridurre il rapporto debito PIL. Non si tratta di una soluzione miracolosa, ma può dare il tempo necessario per rendere più efficiente il sistema produttivo italiano.
Il sussidio va finanziato in modo da non causare effetti rilevanti sui consumi delle famiglie. Senza entrare in dettagli tecnici, ciò si può ottenere rendendo più progressivo il sistema fiscale e diminuendo l’evasione. Per le imprese non esposte alla concorrenza estera, il sussidio complessivo sarebbe all’incirca compensato dal maggiore prelievo fiscale.

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