Il cuore nero dell’Europa

by Sergio Segio | 25 Luglio 2011 9:22

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Poi, col passare delle ore, sono arrivati i dettagli della strage sull’isolotto di Utoya ed è emerso quel giovane biondo, con lo sguardo azzurrino. Alla certezza iniziale sulla natura jihadista dell’attentato è succeduto un momento di incredulità . Il terrorista era un puro scandinavo. Un norvegese aveva ammazzato decine di ragazzi norvegesi a sangue freddo. L’assassino era di incontestata origine europea, era un cristiano e fiero di esserlo. Se il pensiero che si trattasse di un arabo, di un musulmano, era stato un riflesso condizionato, la scoperta che il criminale era “uno dei nostri” ha suscitato sgomento. Il terrorismo può dunque essere europeo. La sorpresa ha stordito non solo i norvegesi.
I primi sospettati, supposti jihadisti nostalgici di Bin Laden, sono via via scomparsi dai telegiornali e dalle prime pagine dei quotidiani (e speriamo che non vi ritornino) ed è affiorata la tesi dell’attentato neo nazista, poiché il giovane biondo, identificato come Anders Behring Breivik, 32 anni, di professione agricoltore, è subito risultato “anti marxista, anti Islam, anti multiculturale”.
La polemica delle attribuzioni contrapposte, tra chi sosteneva la natura islamica dell’attentato e chi sosteneva quella di un’azione concertata di estrema destra, non ha avuto il tempo di svilupparsi, perché (con la riserva che nel corso delle indagini emergano complici e con loro una qualche organizzazione), il giovane biondo con gli occhi azzurrini appare sempre più un assassino solitario, un uomo psichicamente anormale, un individuo affetto da paranoia.
Ma anche se questa diagnosi venisse confermata, essa non ridurrebbe comunque la strage norvegese a un’azione compiuta da un pazzo, quindi a un affare di competenza dei soli psichiatri. Anders Behring Breivik è un tumore annidatosi e sviluppatosi nella nostra società  europea, dove la crescita dei gruppi di estrema destra ha creato un’atmosfera che può spingere persone psichicamente disturbate a gesti di illimitata violenza. Lo sostiene Hajo Funke, professore alla Libera Università  di Berlino e studioso dei fenomeni di estrema destra. E con lui sono d’accordo non pochi altri esperti nella materia.
Non c’è del resto bisogno di ricorrere agli specialisti per rendersi conto che l’opposizione all’immigrazione, in particolare a quella musulmana, alla globalizzazione, al multiculturalismo, e a tutto quello che lo favorisce, Unione Europea inclusa, rafforza i movimenti populisti solerti nel presentarsi come difensori dell’identita nazionale o dei particolarismi regionali. Ed anche se quei partiti non predicano la violenza, essi creano un clima di odio che la favorisce, anche a livello individuale. Una violenza non riservata alla Norvegia, giudicata una contrada, a torto o a ragione, tradizionalmente tollerante, ma anche possibile in tanti altri paesi, con tradizioni meno virtuose.
La lotta al terrorismo di origine islamica è stata e resta giusta, indispensabile, e dopo l’11 settembre non poteva che mobilitare la quasi totalità  delle varie intelligences occidentali. Ma si può sostenere, come il New York Times, che probabilmente si è sottovalutato il pericolo del terrorismo di estrema destra. L’attentato alle Torri Gemelle ha fatto ad esempio dimenticare, lo ricorda sempre il Nyt, quello avvenuto sei anni prima, nel 1995, a Oklahoma City, dove un estremista di destra uccise 168 persone con un ordigno a base di fertilizzanti, come quello piazzato nel centro di Oslo da Anders Behring Breivik.
È stato dato, ad esempio, scarso rilievo a quel che è accaduto lo scorso novembre nella città  svedese di Malmo, dove un uomo è stato arrestato con l’accusa di avere aggredito una dozzina di immigrati. In un caso con esito mortale. Sempre in Svezia un partito di estrema destra, quello dei Democratici svedesi, ha ottenuto il 5,7 % dei voti ed è entrato per la prima volta in Parlamento. In Danimarca il Partito del Popolo danese ha venticinque seggi su 179 e in Olanda il partito di Geert Wilders, il Partito della Libertà , ha ottenuto il 15,5 per cento alle ultime votazioni. Sono nuovi e vistosi coefficienti elettorali che provano la crescita dell’estrema destra nell’Europa del Nord, le cui società  sono ritenute aperte, accoglienti con gli immigrati.
Nell’Europa del Sud gli esperti dedicano ovviamente particolare attenzione al Front National francese, del quale Nicolas Sarkozy cerca di contenere la crescita, a un anno dalle elezioni presidenziali, sottraendo non poche idee al limite della xenofobia, a Marina Le Pen, nuovo leader e pericoloso concorrente. La Lega di Umberto Bossi, con una schietta tendenza anti immigrati, è addirittura al governo a Roma.
In molti scritti l’assassino norvegese si dichiara difensore della “cultura nordica” e condanna il multiculturalismo, in particolare la contaminazione araba. Con un altro stile, ben inteso, tre grandi leader europei hanno sostenuto tesi identiche. Il primo ministro del paese europeo più rispettoso dei diritti degli immigrati, l’inglese David Cameron, ha condanato il multiculturalismo. E lo stesso ha fatto a chiare lettere Angela Merkel, anche se la cancelliera tedesca non si è poi risparmiata nell’enfatizzare la necessità  dell’immigrazione. In quanto al presidente francese ha promosso una campagna sull’identità  nazionale, rivelatasi sfortunata. E comunque per Parigi l’assimilazione resta un dogma, e si guarda dall’ammettere il comunitarismo, e quindi il multiculturalismo.
Sarebbe troppo sbrigativo, anzi assurdo, affermare che l’assassino di Oslo e Utoya ha espresso con la bomba e il mitra i propositi di eminenti dirigenti europei. Non mi permetto di dirlo. Né lo penso. Ma l’atmosfera europea risente di quelle idee. Anders Behring Breivik era, a quel che sembra, un cane sciolto negli ultimi tempi. L’estrema destra norvegese non ha un vero leader, è un mosaico di tanti gruppi, sempre più numerosi, i quali traducono in discorsi fanatici, i normali propositi della società  politica democratica. E Breivik si abbeverava a quelle fonti.

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