Il caso DSK. Nessuno tocchi Ofelia

by Sergio Segio | 10 Luglio 2011 7:02

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 Giustamente Luisa Muraro, sul manifesto del 5 luglio, chiede di tenere aperta la discussione sul modo in cui questo giornale (in compagnia di molti altri, in Italia e nel mondo, ma questo non è un alibi) ha registrato la «svolta» di pochi giorni fa nell’affare Strauss-Khan: assumendo che la scarsa credibilità  attribuita dagli inquirenti a Ofelia, al secolo Nafissatu Diallo, a causa dei suoi precedenti di vita, vanifichi automaticamente la credibilità  delle sue accuse all’ex presidente dell’Fmi, e avallando il ribaltamento di Strauss Khan da presunto colpevole di stupro a vittima delle menzogne della cameriera o/e di un complotto dei suoi avversari.

Sulle cautele garantiste che sarebbero necessarie rispetto all’inchiesta (in quali condizioni e in quale lingua è stata interrogata Ofelia? le incoerenze del suo racconto sono menzogne o contraddizioni?, eccetera) ha già  scritto con cognizione di causa Nancy Bailey (il manifesto, 4/7) e non c’è bisogno di tornarci. Bisogna invece tornare su due punti che dopo mezzo secolo di femminismo dovrebbero essere punti fermi, e che invece nella discussione sul caso Strauss-Khan, troppo viziata dalla «guerra culturale» tra Francia e Usa e dalla preoccupazione per i destini di un potente della terra, rischiano continuamente di saltare.
Il primo: può verificarsi violenza all’interno di un rapporto sessuale iniziato consensualmente? Il secondo: può una donna che abbia mentito su alcune circostanze della sua vita essere credibile quando afferma di aver subito una violenza sessuale?
In entrambi i casi la risposta è sì. Il principio per cui una donna deve poter sottrarsi a un rapporto sessuale in qualunque momento lo percepisca come violento, e non può essere costretta a continuarlo, dovrebbe essere sempre tenuto presente nella valutazione di casi come questo. I rapporti sessuali a pagamento non costituiscono un’eccezione a questo principio: basta ascoltare o leggere ciò che le prostitute dicono di sé per sapere che la contrattazione dettagliata delle prestazioni è la loro prima tutela dalle derive violente della sessualità  dei loro clienti. Invece, uno dei presupposti impliciti più sorprendenti delle reazioni innocentiste o complottiste sul caso DSK è l’idea che – posto e non concesso che Ofelia si sia prostituita o che sia entrata in quella stanza al posto di una prostituta attesa da Strauss Kahn – con una prostituta, anzi a una prostituta, sia lecito fare di tutto.
Passiamo al secondo punto. In tutto il mondo, da un paio di decenni in qua, i trucchi, i misfatti e la doppia e tripla morale della sessualità  maschile sono messi in questione dal fatto banale che le donne parlano. Prima tacevano, complici o sottomesse, e coprivano gli uomini. Adesso parlano, e, come si dice, li sputtanano. Parlano tutte, donne perbene e donne permale, le permale con maggiore spregiudicatezza, vivaddio, delle perbene. E sputtanano tutti, comuni mortali e potenti della Terra, i potenti della Terra con maggiori ragioni, vivaddio, dei comuni mortali.
Sarebbe bene guardare a questo fatto, da sinistra, senza lenti opportuniste (nel caso di uomini «amici», vedi DSK) o moraliste (nel caso di «nemici», vedi Berlusconi): il fatto è politico e si chiama fine del patriarcato, ovvero di quel sistema socio-simbolico basato sul silenzio-assenso femminile al dominio maschile. Diventa decisiva, di fronte a questo fatto, la seguente questione: quanto e quando conta la parola di una donna? Quali sono le condizioni perché sia credibile? È credibile solo se la sua vita è immacolata, se ha sempre pagato le tasse, se non ha mai preso una multa, se è una brava madre, se da piccola faceva bene i compiti, insomma se è una vittima casta e una cittadina in regola? Se Ofelia ha mentito per ottenere il visto americano, mente di conseguenza anche quando accusa Strauss Kahn di averla violentata? Qual è il supplemento di credibilità  che a una donna si richiede ogni volta che prende parola pubblicamente? E perché in una sfera pubblica in cui gli uomini pubblici mentono sistematicamente, e sistematicamente vengono esentati dai criteri di verifica del vero e del falso, alle donne si richiede sempre un supplemento di credibilità ?
Vale la pena di ricordare che lo screditamento delle testimoni ha accompagnato tappa per tappa, in casa nostra, il Berlusconi-gate: Veronica era instabile e aveva un amante, Patrizia era una millantatrice, Ambra e Chiara sono manipolate dalla loro avvocata, Ruby è stata graziosamente invitata dal premier a fingersi pazza: con o senza il sospetto di violenza sessuale per lo mezzo, il dispositivo simbolico di screditamento della parola femminile è lo stesso.
Ma nel caso Strauss Kahn c’è qualcosa di più. A differenza di Berlusconi, Strauss Khan tace. Per tattica difensiva, ma non solo. Lo stesso collasso della parola che lo porta ad agire una sessualità  padronale, che si annette imperialisticamente il corpo dell’altra, diventa l’arma finale del padrone del senso, che si esenta da ogni spiegazione annullando col silenzio il balbettio dell’altra. La parola contraddittoria di lei contro il silenzio monumentale di lui, il corpo oscurato di lei contro il corpo «rasato ed elegante», come lo descrivono le cronache, di lui. Sono davvero infinite le astuzie del primato del fallo.
Infine. Lo screditamento di Ofelia e l’assoluzione mediatica di Strauss Kahn avvengono mentre restano inalterati tutti gli elementi indiziari raccolti sulla scena del presunto stupro. Rivediamoli: «abbondante materiale biologico» di lui sul corpo di lei, ferite nelle parti intime di lei, il collant strappato, il legamento di una spalla rotto. Aspettando l’esito del processo sarà  lecito porsi ancora qualche impertinente domanda di fronte a questo film girato al Sofitel di Manhattan, e con ancora in testa quello girato in Italia nelle location del presidente del Consiglio, senza violenza presunta ma con tanto di bunga-bunga e statuette priapiche adorate a mo’ di totem. Che cosa fa sì che oggi, nelle democrazie occidentali, il sesso e il potere si uniscano secondo questa etica e questa estetica? Che cosa lega all’esercizio del potere la pratica di una sessualità  perverso-polimorfa, più infantile che virile? Che cosa associa all’esercizio del potere il disprezzo vendicativo del corpo femminile?
Intervistato da Gad Lerner su analoghi punti in una recente puntata de «l’Infedele», Marco Revelli ha risposto sostenendo che negli ultimi decenni è cambiato il potere, si è incattivito e involgarito. Si potrebbe tuttavia con buoni argomenti sostenere che a essere cambiata è la sessualità  maschile. Attenzione: non perché la scena del Sofitel o quella di Arcore siano emblematiche di un dispositivo sessuale maschile generalizzabile, ma perché la rappresentazione pubblica che gli uomini di potere danno, o avallano, o ostentano, della loro sessualità  rinvia, come tutte le rappresentazioni, a un non-rappresentato, a un fuori-scena, a un non detto di cui troppo poco sappiamo. È il non-detto del sesso che emerge nel segreto del setting analitico, disegnando tutt’altre sceneggiature da quelle del Sofitel o di Arcore: un desiderio maschile spento, un desiderio femminile tacitato dal collasso dell’oggetto d’amore. Qui il potere sfuma nell’impotenza, e il piacere si arrende al godimento. Con quali conseguenze per il rapporto sociale e politico fra donne e uomini?
Spetta ancora a noi donne cercare risposta a questa domanda. Se oggi la parola di Ofelia, per quanto controversa, è sulla scena e non più fuori-scena, lo si deve a mezzo secolo di presa di parola femminile sulla sessualità  e sui suoi riflessi nella sfera pubblica. A questa presa di parola resta affidata la possibilità  di tenere aperta una postazione dalla quale possa prendere corpo, per donne e uomini, una sessualità  non imprigionata nella trappola fallica, e possa parlare un godimento non sottomesso alla pulsione di morte. Diversamente, a restare stritolata fra una vittimizzazione casta e una cittadinanza in regola non sarà  solo la parola di Ofelia, ma anche la nostra.

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