I cinesi a Times Square L’agenzia di Pechino conquista il maxischermo
NEW YORK — Da un lato della piazza un’orchestrina che suona musica delle Ande. All’estremo opposto il concerto della cantante rock Jordin Sparks offerto dalle batterie Energizer. In mezzo migliaia di americani e di turisti che la riempiono anche in un giorno feriale. Sulle loro teste il groviglio delle pubblicità luminose che pendono da tutti gli edifici e schizzano sempre più verso l’alto. Quella dei grandi magazzini Macy’s si arrampica fino al 31 ° piano della facciata dell’Hotel W. Quella del musical Mary Poppins riempie la fiancata di un altro grattacielo in tutta la sua altezza.
Times Square è sempre più il cuore — caotico ed eccessivo ma pieno d’energia— di New York e dell’America. Il luogo simbolo della sua natura cosmopolita. Sull’edifico che la chiude dal lato nord, il più celebre e fotografato, campeggiano le pubblicità «storiche» di Coca Cola, Samsung e delle assicurazioni Prudential. Ma quella della banca Hsbc non c’è più. Sostituita, per ora, da una sequenza di immagini naturali non sponsorizzate: foche, serpenti, discese in canoa tra le rapide. Il cronista che prova ad avere una reazione al fatto che lì, da lunedì, ci sarà la pubblicità dell’agenzia cinese Xinhua, riceve risposte vaghe da gente più distratta o irritata che curiosa. «Xinhua? Cosa vendono?» . Notizie. «Ah, bene. Vendano quello che vogliono. Basta che portino soldi» . «Facciano pure. Questo è un Paese libero» . Xinhua, però, non è un’azienda commerciale come le altre che fanno pubblicità in questa vetrina d’America.
È l’agenzia «Nuova Cina» , il colosso dell’informazione del governo di Pechino: una macchina della comunicazione con diecimila giornalisti che pubblica anche venti quotidiani e dodici periodici in varie lingue, compreso l’inglese. Un’azienda che sta diventando la punta di diamante dell’offensiva del governo cinese per diffondere la sua cultura nel mondo e per dare un’immagine rassicurante, amichevole del colosso asiatico. Proprio mentre l’America si contorce in un’incredibile crisi politico-istituzionale con la rissa sul suo bilancio federale che le toglie credibilità e dà un’altra picconata alla sua leadership, la Cina mette un piede nel cuore pulsante dell’Occidente, si compra un pezzetto del «megafono del mondo» .
Per fare cosa? Xinhua non lo spiega e la società che gli ha affittato l’ambitissimo spazio non dice quanto pagherà né per quanto tempo resterà (comunque diversi anni). Ma è facile immaginare che il governo di Pechino, dopo aver stanziato due anni fa una cifra pari a sei miliardi di dollari per diffondere nel mondo l’informazione prodotta in Cina, voglia dimostrare di essere sempre più un Paese capace non solo di esportare gran parte dei prodotti consumati dagli americani e di comprare pezzi del debito pubblico Usa, ma anche di diffondere cultura e informazione. Un’offensiva che arriva proprio mentre un’America in crisi ha già ridimensionato le sue strutture informative. Quelle pubbliche — Voice of America e le altre reti che ebbero un ruolo importante durante la «guerra fredda» — ma anche quelle private, con giornali falcidiati dalla crisi dell’editoria. Il governo americano è consapevole da tempo del pericolo. Tre mesi fa, davanti al Congresso, il segretario di Stato, Hillary Clinton, ammise che gli Usa stanno perdendo la «guerra dell’informazione» citando come rivali la tv araba Al Jazeera, Russia Today e i cinesi di Cctv: «Dopo la caduta del Muro di Berlino» spiegò allora la Clinton, «ci siamo detti: ok, missione compiuta. Un errore che ci sta costando caro» .
Usare il termine «guerra» non è eccessivo, visto che lo stesso presidente cinese Hu Jintao ha parlato più volte di una «feroce battaglia per il dominio delle news e delle opinioni» . Hu, quando visito gli Stati Uniti a gennaio, volle recarsi in una delle centinaia di scuole che aderiscono al programma dell’Istituto Confucio che paga tutte le spese di corsi di lingua e cultura cinese che si tengono in questi istituti. Nulla di rivoluzionario. L’Italia prova a promuovere la sua cultura nel mondo (adesso meno per i tagli di bilancio) con la società Dante Alighieri, la Germania col Goethe Institut. Ma la Cina è una potenza illiberale con mezzi finanziari illimitati che mira a soppiantare la leadership americana.
Quello Usa rimane un sistema molto aperto, le reazioni non mancano: in alcuni distretti le autorità hanno spinto le scuole, per le quali il denaro cinese sarebbe ossigeno, a rifiutare sussidi che vengono da una dittatura comunista. Non è, poi, detto che i cinesi azzecchino la politica di comunicazione: i filmati dell’anno scorso— diffusi in Internet e trasmessi anche a Times Square — per dare l’immagine di un Paese aperto, che usa il «soft power» , secondo molti esperti hanno più spaventato che rassicurato gli spettatori occidentali. I cinesi forse potrebbero anche limitarsi a sedere sulla riva del fiume aspettando gli autogol americani. Un’indagine condotta proprio questi giorni dal centro di ricerche Pew ha trovato che in 15 dei 22 Paesi sondati la gente ritiene in maggioranza che la Cina supererà , se non lo ha già fatto, l’America come prima superpotenza. Curiosamente la pensano così francesi, inglesi e tedeschi — e anche il 46 per cento degli americani — mentre asiatici, sudamericani ed europei dell’Est sono molto più scettici sul futuro «imperiale» di Pechino.
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