I cercatori d’oro spazzati via dalla diga

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MEDELLIN. È l’alba sulle sponde del fiume Cauca, nel nord della Colombia, e migliaia di minatori si dirigono verso la riva ricca d’oro inerpicandosi fra le rocce con gli strumenti di lavoro in spalla. Fino al tramonto, tutti i giorni della settimana le mani dei minatori scavano, spaccano pietre, lavano la terra alla ricerca del metallo prezioso che da secoli viene estratto nella zona.

Ma dall’anno scorso i lavoratori del fiume vivono in un incubo: essere obbligati ad abbandonare le sponde inospitali del Cauca e ritrovarsi senza il lavoro che molti svolgono da quando sono bambini. L’Impresa pubblica di Medellà­n (Epm) ha iniziato a costruire sul fiume la più grande centrale idroelettrica della Colombia che, secondo il progetto, dovrebbe generare 2400 mega watt, ovvero un quinto della domanda di energia del paese. L’enorme diga di 225 metri di altezza, che sarà  eretta fra il municipio di Ituango e Briceà±o, nella regione di Antioquia, costerà  circa 3 miliardi di dollari.
La costruzione di questa infrastruttura e l’inondazione della vallata, secondo l’ingegnere ed esperto in drenaggio Gabriel Echeverri Ossa, non solo priverà  del proprio lavoro migliaia di minatori e contadini della zona ma genererà  un’enorme quantità  di biossido di carbonio e metano, farà  estinguere centinaia di specie di flora e fauna e ridurrà  drasticamente l’offerta d’acqua per il consumo umano e animale.
Non solo. Le acque stantie rischiano di portare malattie per la popolazione come febbre gialla, malaria e dengue. Così i futuri sfollati dal progetto dell’impresa Epm hanno costituito in difesa dei propri interessi l’associazione Asomituango e scelto come portavoce una donna di 29 anni dallo sguardo impavido e le mani segnate dal lavoro: Marà­a Magdalena Muà±oz.
La sua famiglia ha sempre vissuto la maggior parte dell’anno sulla sponda del fiume in piccole capanne fatte con pali di legno raccolti sul bagnasciuga e un tetto di plastica. La nonna Maria Bertilda Monsalva, 51 anni, e il nonno Gerardo de Jesus Muà±oz, 61 anni, con l’estrazione artigianale dell’oro del Cauca hanno tirato su, oltre a Magdalena, altri dieci figli. Quando si sono sposati 35 anni fa vivevano in una casupola di terra in cima alla montagna, oggi, dopo una vita fatta di duro lavoro nella miniera e privazioni quotidiane, hanno potuto comprare un piccolo terreno.
«A causa della costruzione della diga – denuncia Maria Bertilda con voce saggia – perderemo il nostro lavoro. Il governo non può agire come se non esistessimo solo perché siamo gente umile». Il marito concorda sottolineando che «il fiume è pubblico ed Epm non può impedire ai minatori di andare sulla riva a lavorare», mentre una delle figlie, Alba Nelly di 28 anni, si domanda tra le lacrime come farà  a mantenere i suoi tre bambini.
Le proteste dei minatori del Plan de Icura del municipio Briceà±o dove lavora anche la famiglia Muà±oz si sono intensificate dopo che nel dicembre scorso l’esercito ha distrutto le capanne di 24 persone che vivevano sulla sponda obbligandoli ad andarsene.
Nella zona, che si trova da decenni sotto il controllo della guerriglia dell’Esercito di liberazione nazionale (Eln), da quando è iniziata la costruzione della gigantesca infrastruttura, sono state inviate centinaia di soldati e di vigilanti privati. Secondo il collettivo Hidroituango formatosi l’anno scorso e composto da organizzazioni sociali, sindacati e politici, la militarizzazione della vallata ha inasprito il conflitto armato esistente ormai da cinquanta anni e vi è il rischio che generi un’ennesima migrazione forzata della popolazione.
La Colombia è il paese con il maggior numero di rifugiati per violenza al mondo: secondo l’ong Codhes ad oggi vi sono 5,2 milioni di desplazados, la maggior parte provengono dalle zone rurali, sono indigeni e afro-colombiani, e Antioquia è la regione al primo posto per quantità  di espulsioni e ricezioni.
«A marzo l’esercito ha minacciato di cacciarci via con la forza dal Plan de Icura – afferma Fabio Ramirez -, ci ha accusato di essere degli invasori abusivi delle sponde, ormai proprietà  di Epm, e degli alleati dei guerriglieri. L’alone di sospetto che hanno costruito potrebbe giustificare una persecuzione contro noi lavoratori – conclude amaramente – perciò viviamo nella paura».
A marzo il cavo a cui si agganciavano i lavoratori per attraversare il fiume e arrivare sulla sponda dove estraggono l’oro è stato tagliato tre volte. «Sono stati dei soldati – denuncia, vincendo il timore di una rappresaglia, Cesar Augusto Espinoza Marzo -, li abbiamo visti. Oggi siamo obbligati a camminare sotto il sole, invece che per 30 minuti, per tre ore e dobbiamo portarci in spalla tutto il cibo necessario a sfamarci per una settimana, visto che dove abbiamo eretto le capanne non c’è assolutamente niente: né fogne, né elettricità , né segnale del cellulare».
La storia dei minatori e contadini dei municipi attraversati dal fiume Cauca dimenticati dal governo è un triste copione che si ripete anche in altre regioni colombiane come Huila e Santander e in altri paesi latino-americani come il Brasile e il Messico dove sono in costruzione altre grandi dighe (Belo Monte e El Zapotillo) per la produzione di energia idroelettrica.
«Non vi sono norme che impongono alle imprese incaricate di grandi opere pubbliche di generare benefici anche per le comunità  locali», spiega Ivan Cepeda, deputato e attivista dei diritti umani colombiano. «La costruzione di colossali infrastrutture come quella del Cauca, oltre a provocare la distruzione dell’eco-sistema, scatena violenze ai danni della popolazione e lo spostamento di migliaia di sfollati verso altre regioni».
La leader dei minatori e portavoce di Asomituango Magdalena Muà±oz chiede qualcosa di semplice, eppure difficile da ottenere: il rispetto dei diritti degli abitanti della zona che da decenni vivono delle risorse della terra nel pieno rispetto della natura. «Visto che perderemo la fonte dei nostri mezzi di sostentamento – afferma con decisione – vorremmo negoziare un indennizzo e analizzare le possibilità  di un impiego per tutti i futuri disoccupati».
Sarà  mai ascoltata?

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PERà™/BOLIVIA Il lago navigabile più alto e più bello del mondo
Il mitico Titicaca ridotto a un immondezzaio?

 

Se le acque e le aree, le persone e la biodiversità  lungo le sponde del fiume Cauca, in Colombia, sono messe a rischio dal progetto di una mega-centrale idro-elettrica, anche il mitico lago Titicaca, fra Perù e Bolivia, è in pericolo. Incastonato fra le montagne dell’altipiano andino, 8400 km quadrati di bellezza allo stato puro, con i suoi 3800 metri sul livello del mare è il lago navigabile più alto del mondo, ogni anno meta di milioni di turisti.
Ma il Titicaca rischia di diventare un immondezzaio e, in alcuni punti, la situazione è già  a un grado critico. L’Unep, il programma dell’Onu per l’ambiente, ha appena lanciato un appello ai governi di Perù e Bolivia ad «avviare un’azione coordinata e urgente per frenare il degrado ambientale». Un totale di tre milioni di persone, fra peruviani e boliviani, vivono nella conca del Titicaca e secondo l’Unep le principali città  sulle sue sponde generano più di 100 mila tonnellate l’anno di rifiuti che vanno inevitabilmente a finire nel lago. Anche un giornalista della Bbc, che è andato a fare un giro in zona afferma di aver potuto verificare che le acque residuali dei centri abitati sboccano nel lago e la «basura» viene semplicemente scaricata sulle spiagge. L’Udep sostiene che anche le attività  minerarie praticate sui fiumi che defluiscono nel Titicaca contribuiscono, con il loro residui tossici, al suo degrado. Come pure influisce l’effetto serra.
A Copacabana, la principale città  sulla parte boliviana del Titicaca, non esiste un sistema fognario decente per cui «tutto finisce nel lago», secondo quanto dice alla Bbc Sixto Paredes, un dirigente ambientalista locale. Copacabana è una delle mete obbligate dei turisti che arrivano al Titicaca. Ma anche lì l’acqua ha un brutto colore scuro e rilascia effluvi sgradevoli. Rolanda Poma, responsabile per lo Sviluppo umano del muncipio boliviano di Tiquina, riconosce che la situazione è precaria ma a suo avviso la responsabilità  dell’inquinamento va attribuita a El Alto, la grande città -satellite che, con il suo milione di abitanti, dall’altipiano sovrasta La Paz, e le cui acque residuali finiscono in fiumi e fiumiciattoli che alla fine sboccano nella baia di Coana, nel Titicaca.
La baia di Coana è il punto più critico della parte boliviana così come l’area di Puno è il punto più critico della parte peruviana.
Gli effetti già  si vedono, sia sulla qualità  dell’acqua del lago sia sulla presenza e quantità  delle diverse specie di pesci. La quantità  dei pesci è diminuita e alcune varietà  sono sparite. Con ricaschi negativi sull’economia della popolazione rivierasca che ha nella pesca la sua principale risorsa economica, oltre che nell’allevamento di bestiame e nell’attività  agricola e, naturalmente, nel movimento turistico. Che però, a sua volta, contribuisce al degrado della situazione ambientale.
Di qui l’allarme lanciato dell’Onu e l’appello ai governi di Bolivia e Perù perché le «loro istanze politiche e tecniche» controllino la situazione e intervengano congiuntamente. Prima che sia troppo tardi.


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