Gioco di squadra, per vincere la crisi

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La crisi del 2009 ha lasciato negli Italiani la paura che, se anche il peggio fosse ora alle spalle, la nostra società  non avrebbe “spessore e vigore adeguati per ripartire”. È un timore fondato?
Quello che sta succedendo in questi giorni è emblematico. Per mesi si è detto che c’erano tenui segnali di ripresa nella condizione economica italiana, mentre d’improvviso ci siamo trovati a fare i conti con il rischio disastroso di un default del nostro Stato. Perciò gli italiani, oltre che timorosi, sono sfiduciati. Non credono nella capacità  del nostro Paese di affrontare situazioni di grande incertezza: è in atto un risveglio dalla fase “narcotizzante” del berlusconismo, in cui si credeva che tutto stesse andando per il meglio. Sta crescendo una volontà  di partecipazione e di maggior assunzione di responsabilità  – e in questa luce si possono leggere gli ultimi risultati elettorali. Non so dire se si tratti del solito “sesto senso” italico, per cui quando ci sentiamo sulla soglia del burrone, troviamo l’energia e la capacità  di reagire. Spero sia qualcosa di più profondo, un vero “vento di cambiamento”.

Quali strategie sono necessarie per superare il “virus” dell’insicurezza?
Ci sono delle riforme strutturali che è necessario portare avanti. Innanzitutto la riforma della rappresentanza politica. Il “ceto politico” deve tornare ad essere “classe dirigente”, a rappresentare i cittadini, mentre oggi ci scontriamo con il problema dell’ autoreferenzialità  della politica, non è chiaro “chi rappresenti chi”. Bisogna inoltre riattivare logiche di lavoro “di squadra”, contro l’attuale incapacità  di fare rete. Infine, esiste un problema di consapevolezza su due questioni fondamentali per il futuro del nostro Paese: l’iniquità  tra le generazioni – per mantenere il consenso popolare nell’immediato si sta minando il futuro dei giovani, tagliando su scuola, lavoro, welfare… E poi la discriminazione tra cittadini nati in Italia e cittadini di origine straniera: non si può continuare a pensare agli immigrati come ad una risorsa da sfruttare quando ce n’è bisogno, per poi dimenticarli quando chiedono di esercitare i loro diritti. 

Dall’ultimo rapporto Censis sulla condizione sociale del Paese emerge un ruolo importante del volontariato per gli Italiani, sia perché uno su quattro dichiara di dedicarvi del tempo, sia perché esso, assieme alla solidarietà  familiare, sopperisce ai vuoti del sistema pubblico. Che peso può avere nella “rinascita” del sistema Italia il Terzo settore?
Può avere un ruolo importante, a patto però sviluppare due aspetti su cui è carente. Il primo è la bassa capacità  di advocacy: il Terzo settore in Italia ha in molti casi un profilo prettamente operativo e per conto terzi – spesso per la pubblica amministrazione – invece è necessario che si occupi maggiormente di azioni culturali, di educazione civica, di difesa dei diritti delle persone.
Il secondo aspetto su cui il volontariato deve investire è quello di assumere un ruolo economico “altro” rispetto al sistema della “globalizzazione”, diventare più “impresa sociale”. Per essere competitivo in campo economico dovrebbe sviluppare quell’area ad alta intensità  di lavoro che non è delocalizzabile, sia in termini di servizio alle persone, sia in termini di cura del territorio, di servizi di pubblica utilità  ecc.
Per raggiungere questi due obiettivi, il Terzo settore dev’essere meno dipendente dalle commesse pubbliche e cimentarsi in ambiti di lavoro che fino ad oggi non ha mai preso in considerazione. Ad esempio per quanto riguarda l’acqua, che i cittadini con un recente referendum hanno ribadito essere un bene comune, i relativi servizi potrebbero essere gestiti da imprese sociali non profit.

Nonostante il grande impegno nel volontariato, gli Italiani sentono di vivere in un Paese in cui l’individualismo è destinato ad affermarsi sempre più, indebolendo il legami sociali. Cresce l’indifferenza verso le regole, la diffidenza verso gli altri. Come spiega questa apparente contraddizione?
Credo che ci sia un problema legato alla cosiddetta “italianità “. I legami di solidarietà  che si instaurano nella nostra società  sono spesso di tipo “familistico” più che di “cittadinanza”. Per uscire da questa anomalia, ci sarebbe bisogno di un maggiore investimento sul piano dell’educazione civica, ma la scuola pubblica, che dovrebbe assolvere a questo compito trasversalmente a tutte le classi sociali, non è messa nelle condizioni di poterlo fare. Così, si crea una discrepanza tra chi può permettersi una buona formazione scolastica e civica, e chi no. Lo scorso aprile l’Ocse ha evidenziato che esiste un 18-19% di ragazzi tra i 15 e i 24 anni non va a scuola e non cerca un lavoro: vuol dire che sta crescendo una generazione che non ha nessuna attesa né aspettativa nei confronti degli altri e, probabilmente, neanche un senso di responsabilità  verso di loro. 

Come si può sviluppare questo “senso civico”, di “responsabilità “?
Anche in questo caso, il Terzo settore potrà  avere un ruolo strategico, se accetterà  di sviluppare la propria capacità  di promuovere un’azione culturale, di educazione al senso civico e di cittadinanza.

L’indagine curata da Censis per Unipol dipinge un futuro nero per la “generazione mille euro”. Nel 2050, quei giovani “fortunati” che quantomeno oggi lavorano, non avranno una pensione che consenta una vecchiaia dignitosa. Qualcosa si è rotto nel sistema del welfare italiano?
Non proprio. Più che di una rottura, si tratta di un “rinvio” di problemi che sono invece fondamentali: si garantisce un sistema previdenziale a chi ora è in pensione o è in procinto di andarci, perché questo porta consenso politico nell’immediato. Ma i giovani nel frattempo vivono schiacciati sul presente, con stipendi bassi e contratti non stabili, senza la possibilità  di risparmiare, né tanto meno investire in pensioni integrative per evitare il rischio povertà  in vecchiaia. Mentre si pensa, nell’oggi, a come mettere in sicurezza la nostra economia dal “rischio Grecia”, ci si sta dimenticando di progettare il futuro delle nuove generazioni, facendo affidamento su un “assistenzialismo familiare”, in cui i padri soccorrono i figli, che sul momento sta facendo da tampone, ma sul lungo periodo creerà  un corto circuito. 


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