Genova dieci anni dopo

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Rumore sordo. Clang. Rumore metallico, ripetuto, ossessivo. Immaginate se nel cuore della notte arriva da fuori clang, clang e immaginate anche il giallo delle cellule fotoelettriche. La notte tra giovedì 19 e venerdì 20 luglio 2001 a Genova accadde qualcosa che è rimasto un dettaglio delle cronache. Non per chi c’era. Il quartier generale dei giornalisti era l’albergone di vetro e cemento armato che s’affaccia sul piazzale di Brignole. Molti degli accreditati al G8 dormivano lì da quando era cominciato l’anti-G8, la settimana di dibattiti e incontri che avrebbe voluto dimostrare che un altro mondo è possibile, non solo quello deciso dagli otto grandi della terra. Giovedì c’era stata la manifestazione dei migrantes, migliaia in maglietta e pantaloncini, altrettanti con le divise antisommossa, ma era andato tutto bene, i genovesi, quei pochi rimasti, applaudivano e qualcuno mostrava la biancheria che il premier fresco di nomina Silvio Berlusconi aveva invitato a non stendere alle finestre per un fatto d’estetica. La sera, poi, il concerto di Manu Chao aveva riempito il piazzale del lungomare. Una festa bellissima. Eravamo andati a letto pensando che sì, dai, dopo mesi di alta tensione e quei primi giorni angosciati dalle bombe anarchiche a Bologna e Genova (un brigadiere perse l’uso della mano), che dopo
tutto questo forse il peggio era passato. Alla faccia delle recinzioni metalliche alte dieci metri, dei passaggi solo pedonali tipo check point Charlie, delle grate di ferro da Birkenau che avevano ingabbiato il centro storico di Genova. E invece, clang, clang, ancora clang, tutta la notte. La luce del giorno consegnò l’angoscia di cosa può voler dire un colpo di stato. Su ordine del ministero dell’Interno, Genova non era più solo la zona rossa, la più grande mai vista in un vertice del G8 e la più presidiata. Nella notte, grazie a pesantissimi container allineati per chilometri era stata creata un’altra zona rossa, ben più ampia. La chiamarono “zona di rispetto” per creare – dissero – “un cuscinetto tra la zona rossa e quella dove hanno libero accesso i manifestanti”. Diventò la zona anticamera delle carneficina. Quei container alti due metri e mezzo, lunghi otto e larghi quattro diventarono il confine di ferro tra il bene e il male. Da subito fu chiaro che era una provocazione. E che la guerra di cui parlavano da febbraio le veline dei servizi sarebbe stata combattuta per davvero. Quei container calati nella notte erano la fine dell’ultimo residuo di innocenza.
Il G8 di Genova è stata la Caporetto di un modello di ordine pubblico che per vent’anni, dopo il terrorismo, aveva saputo conciliare il diritto a manifestare e la tutela dei diritti di tutti. È stato il tradimento di una polizia, corpo civile, tornata a comportamenti militari. Il sangue e la violenza del G8 di Genova sono stati decisi a tavolino. Da febbraio le intelligence veicolavano allarmi da fine del mondo. Ne ricordiamo alcuni: lancio di sangue infetto da aerei in volo; agenti presi in ostaggio dai manifestanti; chiusura dello spazio aereo e batterie antimissili; radar marini di ogni ordine e grado. L’intelligence italiana «in continuo contatto info-investigativo con le polizie e i servizi di sicurezza alleati», recitavano le informative aveva diviso il Movimento in blocchi colorati, dal bianco, il più innocuo, al nero, il più violento. In mezzo il rosa, il giallo, il blu. I giornalisti venivano invitati a vedere l’addestramento dei reparti mobili e il nuovo equipaggiamento: il tonfa di gomma fuori e ferro dentro, le divise da Robocop di finanzieri e carabinieri. In aprile, con ancora Prodi al governo, c’era stata la prova generale a Napoli durante un vertice, anche lì botte da orbi sui manifestanti. A giugno alcuni giornali scrissero: «A Genova ci scapperà  il morto».
«Presidente, c’è il morto», disse infatti Roberto Gasparotti a Berlusconi venerdì 20 luglio poco dopo le 18 mentre il premier usciva con le delegazioni straniere dal palazzo comunale nel cuore senza rumori né vita che era la zona rossa. Carlo Giuliani era caduto in piazza Alimonda alle 17.47. Un corpo esile, bianco, a torso nudo, giaceva con un buco in fronte e sembrava un Cristo. Prima di uccidere Giuliani, intorno alle 14, i reparti impazziti – non conoscevano le strade – avevano attaccato all’improvviso il corteo delle Tute Bianche dando il via alla guerriglia.
Il giorno dopo, sabato, il corteo pacifista di 200mila persone, mamme e bambini e anziani e giovani, riempì Genova nonostante il sangue. Anche quel corteo, dove si erano infiltrati i guastatori violenti che però – grande mistero nessuno dei nuclei super speciali inviati a Genova aveva fermato in anticipo, fu assaltato con lacrimogeni e manganelli e scudi di plexiglass. La domenica, l’irruzione a freddo nella scuola-dormitorio della Diaz. Erano le undici di sera. «Cercavamo una rivalsa, cioè tanti arresti, dopo i disastri dei giorni precedenti»: lo ha detto ai giudici il prefetto Ansoino Andreassi, capo dell’ordine pubblico a Genova. Uno dei pochi che ha avuto il coraggio di dire la verità .
«Cercavamo una rivalsa cioè tanti arresti…»
Dieci anni sono sufficienti per tenere separata l’emozione dalla ragione. Il disastro di Genova, visto oggi, può avere un sola scusante: cinquanta giorni dopo Al Qaeda avrebbe lanciato due aerei passeggeri contro le Torri Gemelle e uno contro il Pentagono. Si capisce perché le intelligence insistevano con ogni tipo di minaccia, soprattutto dal cielo. L’opzione kamikaze non era ancora matura nelle situation room dei paesi occidentali. Ma c’erano andate vicino. «Avevo dato l’ordine di sparare se qualcuno si fosse arrampicato sulle reti metalliche della zona rossa» confessò poi l’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola. Ecco, Genova fu «la sospensione della democrazia» come hanno detto i giudici. Quel disastro di violenza gratuita aveva un alibi “politico”? Forse sì, se qualcuno di quanti dettero quegli ordini – sono ancora tutti ai massimi livelli del sistema di sicurezza nazionale – si fosse assunto la responsabilità  e avesse chiesto scusa. E detto: mai più. È l’arroganza di chi ha sbagliato e non lo ammette che non farà  mai lavare il sangue di Genova.


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