Genova, 10 anni dopo. Esserci, per chi non ci sarà 

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A 10 anni dai fatti di Genova, si aspettano ancora le sentenze definitive dei processi sulle violenze ai manifestanti. Numerosi agenti e funzionari delle forze di polizia sono stati condannati in secondo grado per le loro responsabilità  personali. Ma che dire delle responsabilità  politiche? Pesò più il comportamento di singoli agenti e funzionari che “persero il controllo” oppure la “superficialità ” con la quale fu gestita, agli alti livelli, tutta la situazione?  
Ormai su quanto avvenne a Genova 10 anni fa sappiamo quasi tutto. Conosciamo la verità  sulla notte di violenza alla scuola Diaz e le torture di Bolzaneto. Sappiamo anche che quegli abusi non accaddero casualmente, perché singoli poliziotti o carabinieri persero la testa, ma ci furono indicazioni precise, provenienti dall’alto, e  – sempre dall’alto – garanzie d’impunità . Le condanne di secondo grado per il processo sulle violenze alla scuola Diaz coinvolgono i più alti vertici della polizia, che sono stati tutti in seguito promossi dai governi che si sono susseguiti. Nonostante si tratta di condanne pesanti, che hanno riconosciuto come ci sia stato un disegno repressivo deciso ai massimi livelli delle forze dell’ordine, la politica ha reagito promuovendo i colpevoli e isolando completamente i magistrati che conducevano l’inchiesta. Questo spiega anche perché non si è mai realizzata una commissione parlamentare d’inchiesta per  individuare le responsabilità  politiche di quei fatti, e non solo di chi ha gestito l’ordine pubblico.

10 anni dal G8 di Genova, e fra poco anche 10 anni dall’attentato alle torri gemelle di New York. Due momenti nei quali, per motivi diversi, si pensò che il mondo fosse giunto ad un punto “di non ritorno” e si preparasse a una decisa “svolta”: in un caso con speranza, per il risveglio dei movimenti e della voglia di partecipazione; nell’altro con angoscia e paura, per la violenza del terrorismo e la non meno violenta risposta della “guerra al terrore”. In questi 10 anni, quale di questi due motori è stato più forte: la paura o la speranza? Quale ha trainato i principali cambiamenti?

A livello globale sicuramente il motore della paura, costruito ad hoc. Per distogliere gli occhi da quello che era il vero conflitto sociale che attraversava il mondo, ovvero il contrasto tra logica del denaro e logica dei diritti, la centralità  del dibattito mondiale è stata spostata sulla paura del terrorismo islamico. Quando ho avuto la notizia dell’attentato alle Torri gemelle, ero insieme a Adolfo Pérez Esquivel, Premio nobel per la pace per organizzare il secondo forum sociale mondiale di Porto Alegre. Insieme abbiamo fatto una sola considerazione: “sta cambiando completamente lo scenario mondiale”. Fino a quel momento, la contraddizione era stata quella tra un grande movimento antiliberista, che si stava diffondendo in tutto il mondo, e i centri di potere della globalizzazione liberista, rappresentati ad esempio dall’Organizzazione mondiale del commercio, dalla Banca mondiale, dal Fondo monetario internazionale. Da quell’11 settembre la “narrazione” globale è cambiata. Tutto è stato rappresentato come uno scontro tra il mondo occidentale e il fondamentalismo islamico. Ognuno doveva scegliere se stare da una o dall’altra parte. Una terza posizione, come quella del movimento antiliberista, non era contemplabile in questa logica. Anche a livello nazionale il tentativo di questi anni è stato quello di diffondere la paura. Lo abbiamo visto con la caccia all’immigrato, la paura del “diverso”. Il dato positivo sta nel fatto che i grandi movimenti antiliberisti, anche dentro questo clima, sono riusciti a mantenere viva la speranza e ottenere dei successi in diverse parti del mondo: penso alle conquiste in America Latina e ai grandi cambiamenti sociali avvenuti in Africa con la costruzione dei movimenti di massa, a cominciare da quelli del Maghreb.

In un articolo di pochi giorni fa, Curzio Maltese ha scritto: «Gli ultimi G8 hanno adottato nei documenti finali le idee per cui quei ragazzi della Diaz e delle strade di Genova venivano presi a manganellate e portati nella caserma di Bolzaneto. Con un programma incentrato sulla green economy invocata dal popolo di Seattle fra i lacrimogeni, Obama otterrà  il più largo mandato della storia dei presidenti americani. Perfino gli ultimi referendum vinti con un plebiscito sull’acqua pubblica e il nucleare sono figli di quel movimento. (…)». È d’accordo con questa lettura? Ci sono delle conquiste collettive che possono davvero dirsi figlie di quella stagione, in Italia e nel mondo?
Sono molto d’accordo. Queste conquiste ci sono state sia qui che nel resto mondo. In Italia l’esempio principale è proprio la vittoria per la difesa dell’acqua pubblica e contro il nucleare. Queste vittorie sono un germoglio che affonda le radici nelle idee e nelle denunce di 10 anni fa a Genova. Non dimentichiamo che la stessa categoria culturale dei “beni comuni”, fino al 2001, era praticamente sconosciuta e nacque proprio dal forum di Genova. Se guardiamo oltre i nostri confini troviamo altri frutti positivi di quel fermento: sul tema dell’acqua è strabiliante ad esempio quello che è accaduto in Ecuador. Quando il presidente, Raphael Correa, che come formazione arriva dai movimenti sociali, scoprì che nel suo paese, sotto i terreni della regione amazzonica, c’era il petrolio fece un ragionamento insolito: “questa regione non appartiene solo agli Ecuadoregni, ma è un bene comune e come tale dobbiamo salvaguardarlo in nome delle generazioni che abiteranno questo pianeta”. Decise dunque di non estrarre il petrolio, ma si rivolse alla comunità  internazionale per chiederle di versare all’Ecuador almeno il 50% di quanto avrebbe potuto guadagnare estraendo il petrolio, visto che la nazione aveva invece deciso di tutelare quel territorio per il bene comune.
Questa cultura è figlia di quei fantastici sei mesi che andarono dal Forum sociale mondiale di Porto Alegre del gennaio del 2001 fino al luglio del 2001 con Genova.

La definizione “no global” suona ormai datata. Mentre alcune delle proposte del movimento sembrano riguadagnare terreno: come la tassa sulle transazioni finanziarie, le misure contro il cambiamento climatico, la riforma del Fondo Monetario Internazionale. Ma le forme di mobilitazione sono diversissime rispetto a 10 anni fa. In che modo il rapido sviluppo delle nuove tecnologie, e in particolare di internet e dei social network, può aiutare i “no global” di oggi? Quelle idee rimaste minoritarie, malgrado la passione e anche la preparazione di chi le sosteneva allora, hanno adesso maggiori possibilità  di “sfondare” nell’opinione pubblica?

Il ruolo dei social network e degli altri strumenti legati a internet è fondamentale. Innanzitutto perché aiutano a bloccare la censura, e questo lo sto sperimentando direttamente. Con Lorenzo Guadagnucci – un giornalista che fu tra le vittime dei pestaggi alla scuola Diaz – ho scritto il libro “L’eclisse della democrazia”, in cui raccontiamo, insieme al Pubblico Ministero Enrico Zucca, tutte le verità  nascoste sul G8 di Genova e le strategie che nei giorni seguenti furono adottate per bloccare le inchieste sulle violenze. Il libro è stato completamente censurato, e chi ne conosce l’esistenza lo sa grazie ai social network, che rivestono un ruolo importantissimo anche per quel che riguarda la mobilitazione attorno ai movimenti. Tuttavia non è dai social network che nasce l’impegno concreto dei movimenti, che ha bisogno di incontro diretto, scambio, confronto e discussione.
La definizione ‘No global’ fu certo poco felice: infatti non c’è mai stato nella storia umana un movimento più globale di quello antiliberista. Ma, al di là  della terminologia, ci fu anche un problema politico. Quel movimento chiedeva lo scioglimento di organi come l’Organizzazione mondiale del commercio, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, mentre il centrosinistra moderato aveva un’altra visione strategica del futuro del mondo: intendeva far passare il messaggio che non era la globalizzazione liberista in sé a essere sbagliata, ma chi la pilotava. Tant’è vero che oggi il direttore dell’Organizzazione mondiale del commercio è un ex parlamentare socialista francese. Noi invece pensiamo che il liberismo non sia funzionale, che ci sia un contrasto insanabile tra i diritti, il futuro dell’umanità  e il “dio mercato”. Sarebbe interessante andare a rileggere l’intervento che fece proprio in questi giorni, dieci anni fa, il direttore del movimento no global ufficiale, che prefigurava un grave pericolo: se il modello di sviluppo liberista avesse fallito, ci sarebbe stata una “contraddizione insanabile tra il mercato e gli equilibri della biosfera, con il susseguirsi di diverse crisi climatiche e sociali”. Esattamente quello che poi è avvenuto.

I ventenni di oggi erano bambini 10 anni fa. Quale messaggio dovrebbero mandargli, idealmente, con una “macchina del tempo”, i loro “fratelli maggiori” dalle strade di Genova?

Dovrebbero dire loro che non bisogna mai arrendersi. Che la vita non è un’allegra passeggiata, ma che bisogna impegnarsi e scommettere sulla possibilità  di cambiare il mondo. Quello che per noi 10 anni fa era un importante progetto, una scommessa, per i ventenni di oggi è un’urgenza non cancellabile: se non dovessero riuscire a cambiare il mondo, vi troveranno sempre meno spazio, e quello che hanno adesso è già  assolutamente scomodo.

In questi giorni a Genova si rende omaggio alla memoria di quelle stagione di impegno con dibattiti, manifestazioni, per continuare a progettare un futuro differente. Perché è importante esserci?

Noi torniamo a Genova. Ma non tutti ci torneranno. Innanzitutto non tornerà  Carlo Giuliani. Non possiamo dimenticare che sulla sua morte non si è voluto celebrare un processo, un pubblico dibattimento dove confrontare diverse posizioni su quanto accaduto e chiedere spiegazione di fatti gravissimi. Nessuno ha fornito risposte. Nello scrivere “L’eclisse della democrazia” abbiamo ritrovato un documento datato 4 giugno 2001, un mese e mezzo prima del G8: diceva  esplicitamente che il G8 si sarebbe concluso con la morte di un giovane ventenne ad opera di un altro  giovane ventenne, carabiniere o poliziotto. Il documento è opera dei Servizi segreti e fu poi depositato dai magistrati, ma non se ne seppe più nulla. È un documento preoccupante, perché dà  l’immagine di una scelta di repressione fatta a priori, mettendo in conto che sarebbe potuto morire qualcuno, proprio per mano di un giovane di leva. Io e la famiglia Giuliani abbiamo dei dubbi su chi fu a sparare veramente contro Carlo. E queste cose non si sono potute chiarire nella vicenda processuale, che non c’è stata. Anche le vittime di Bolzaneto non hanno mai avuto risposta e molte di loro non torneranno a Genova, perché non se la sentono. Le ricostruzioni che abbiamo effettuato di quei giorni sono ben peggiori di quanto finora è stato raccontato sui giornali. Le persone che non hanno potuto rielaborare le sofferenze vissute in un modo collettivo si stringono nel loro dolore e corrono il rischio di autocolpevolizzarsi per essersi trovati in quella condizione. A 10 anni da quel G8, il nostro pensiero va a loro, che più di tutti hanno pagato per quella follia.


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