Faccia a faccia col negazionista la strana guerra di Tripoli nel Grand hotel-prigione

by Sergio Segio | 9 Luglio 2011 6:33

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TRIPOLI. La sera, nella vasta hall dell’Hotel Rixos, arrivano i rumori di spari isolati. Qualche breve raffica senza risposta, Poi lunghe pause. Forse qualche oppositore perde la vita nelle strade deserte appena scende il buio. Oppure i fedelissimi del regime si addestrano con le armi distribuite, secondo la propaganda, alla popolazione civile. Uomini e donne. Thierry Meyssan è senz’altro per quest’ultima ipotesi. Lui ha sposato la causa di Muammar Gheddafi e adesso, nella hall del Rixos esalta il ruolo del raìs. Thierry Meyssan è un personaggio molto noto in Francia. Un suo libro, nel quale nega che quello dell’11 settembre sia stato un attentato preparato ed eseguito da Al Qaeda, ha fatto scalpore. Per lui è stato un affare interno americano. Gli americani si sono massacrati tra di loro. Qui, il negazionista dell’11 settembre, affiliato a gruppi di estrema destra parigini, sembra di casa. Lo è anche in Iran. E in Libano tra gli hezbollah. Thierry Meyssan trova che sia stata una buona idea armare la gente di Tripoli.
Ai suoi orecchi il crepitio notturno di armi automatiche suona rassicurante. Dice che i marines americani sono al largo e lui non esclude che possano sbarcare da un momento all’altro. Quindi bisogna essere pronti ad accoglierli come si deve. E’ la prima volta che sento parlare di un possibile intervento degli Stati Uniti a terra e non avendo ancora afferrato il carattere surreale della conversazione, ricordo a Meyssan che Barack Obama non può neanche immaginare un’operazione del genere: il Congresso lo massacrerebbe. La replica è che la flotta Usa si trova nei paraggi. E il negazionista parigino dell’11 settembre continua imperterrito in quello che sembra sempre di più un delirio. Chiede se venerdì scorso abbiamo visto i due milioni di uomini e donne che gremivano la piazza Verde, mentre Muammar Gheddafi parlava, invisibile, attraverso un telefono collegato a un altoparlante. Due milioni? Al massimo erano cinquantamila. Meyssan non gradisce la contraddizione. Si indigna. Erano due milioni e tutti armati. Una folla oceanica e combattiva.
Il francese non è solo. Il delirio è collettivo. Partecipa alla stravagante conversazione, rivelatrice di quel che c’è nella pancia del regime, un grande esperto di affari europei. Un signore garbato, e disinvolto poliglotta. Ha studiato all’estero. E pare sia ascoltato da Gheddafi. Appartiene alla sua stessa tribù (la Ghaddafa) e non nasconde la fervida devozione al colonnello. Per lui il culto del raìs è quello che per gli occidentali è la democrazia. Quest’ultima non si addice agli arabi. Loro hanno bisogno di un capo in cui riconoscersi. Noi pensiamo che un giorno saranno i suoi stessi uomini a destituirlo? Ci sbagliamo. Anche se lui volesse andarsene, le tribù amiche glielo impedirebbero. Gheddafi è la loro anima.
I profondi umori del regime spingono a considerare la primavera araba un’eresia, un’abiezione, e soprattutto un errore che condurrà  alla rovina i popoli di Tunisia e d’Egitto, contagiati dalla democrazia. In quanto all’Europa pagherà  il prezzo del suo tradimento. Gheddafi l’ha detto: noi investiremo il Mediterraneo e l’Europa, le case e le famiglie di quella terra, come un’ondata “di cavallette e di api”. Il consigliere di Gheddafi cerca di razionalizzare quella minaccia (dai toni biblici) e spiega i motivi della tenace resistenza del regime, le ragioni della sua forza, grazie alla quale può affrontare l’isolamento internazionale e l’intervento aereo della Nato in favore degli insorti di Bengasi.
Nel racconto, basato sulla concreta, modesta realtà  tribale, la Libia con i suoi sei-sette milioni di abitanti assurge al rango di potenza irresistibile. I miliardi del petrolio alimentano da decenni l’idea di grandezza, esasperata dalla tragedia. Oltre all’appoggio della sua tribù, Gheddafi – dice il consigliere poliglotta – ha con sé le due più grandi tribù del paese, la Warfalla e la Maghariba, a cui appartengono popolazioni dell’interno. Insieme formano la “alleanza del deserto”, in aperta tenzone con la “alleanza del mare”, formata dalle tribù della costa. La prima, l’alleanza del deserto, è fatta di gente abituata a una vita dura, nella tradizione dedita alla caccia e alla pastorizia. La seconda conta gente meno temprata dalle privazioni. Insomma è molle. «Pensa di essere democratica ed è illusa o corrotta». Il cuore dell’intesa del deserto è comunque il raìs. Nel passato, nel decennio scorso, ufficiali warfalla e maghariba hanno tentato dei colpi di Stato e da allora Gheddafi ha costituito una forza intertribale di cui i suoi (gli ghaddafa) tengono i posti di maggior responsabilità . Ma è lui personalmente ad animare quella forza che resiste al mondo intero.
Thierry Meyssan, il negazionista dell’11 settembre in attesa dello sbarco americano, aderisce con entusiasmo ai vasti orizzonti tracciati dal compagno di tribù del raìs, e dà  il suo sostegno e quello dei suoi compagni di estrema destra parigini. Ma dopo i grandi involi ideali la conversazione precipita nella fogna dei pettegolezzi, da registrare soltanto perché aiutano a decifrare la situazione. Conosciamo le ragioni, chiede il membro della tribù Ghaddafa, esperto in affari europei, che hanno spinto Nicolas Sarkozy ad attaccare la Libia? La gelosia ha avuto la sua parte. Il presidente francese non avrebbe infatti perdonato a Gheddafi il rapporto creatosi tra lui e Cecilia, la moglie dalla quale Sarkozy ha nel frattempo divorziato, quando venne a liberare le infermiere bulgare imprigionate a Bengasi. Dalla dotta spiegazione sulla situazione tribale, il discorso scade in un’insinuazione senza alcun senso e fondamento, presentata come una rivelazione. Seguono tante altre calunnie, sussurrate come se fossero confidenze. Sappiamo che il ricco Qatar, schieratosi con i ribelli di Bengasi, finanzia lautamente Sarkozy? Vogliamo una prova? Carla, la moglie attuale, viaggia su aerei di quell’emirato del Golfo. Queste rivelazioni in realtà  rivelano soltanto la natura del regime.
La guerra al Grand hotel era un’esperienza che mi mancava. Ad inventarla sono stati i gli esperti in comunicazione del colonnello Gheddafi. L’idea è semplice. Raccogli più giornalisti che puoi, non importa se amici o nemici, li metti in una cornice lussuosa, tenendoli al guinzaglio, gli fai vedere quello che vuoi, li imbottisci di notizie in cui possono anche non credere ma che accendono voci e dubbi, e cosi avrai a disposizione un formidabile megafono. Le inevitabili insubordinazioni, le notizie sgradevoli al regime che gli inviati infilano nei loro articoli, sono fastidiose, ma sono trascurabili di fronte al fatto che anche Tripoli, come una vera capitale, accoglie giornalisti stranieri, compresi quelli appartenenti a paesi che sganciano quotidianamente bombe su Gheddafi. E su quei giornalisti il regime può scaricare a sua volta la sua propaganda.
La vasta hall in cui avviene la conversazione, oscillante tra il surreale e il delirio, è affacciata su un parco, dove i giardinieri pettinano i prati annaffiati da finissime piogge artificiali. I camerieri, che non sfigurerebbero a Montecarlo, servono bevande ai reporter impegnati sui computer. Bevande analcoliche, s’intende, perché il regime non è bigotto, anzi ha avuto seri problemi con gli integralisti religiosi, ma le regole di vita musulmane le rispetta. E comunque le bottiglie d’acqua minerale avvolte in tovaglioli come lo spumante, servite all’Hotel Rixos, in città  valgono più dell’equivalente quantità  di benzina, che pur scarseggia, come dimostrano le lunghe code davanti alle pompe, e che costa ogni giorno di più.
L’albergo, dove sono accasermati i giornalisti stranieri, può rivaleggiare per comodità  e quantità  di servizi con quanto c’è di meglio sulle coste del Mediterraneo. Non mancano la piscina coperta, la sauna, il campo da tennis. Insomma, cinque stelle. Non si vede il mare, è vero, ed è un difetto, in una città  di mare. In compenso è a due passi da Bab-Al-Aziziya, la residenza di Gheddafi, e se gli aerei della Nato la bombardano, te ne accorgi. Da un po’ di tempo questo non accade, forse perché Gheddafi non vi abita più. I bunker di Bab-Al-Aziziya non devono essere ritenuti tanto sicuri. Lo sono invece le stanze o gli appartamenti del Rixos, sul quale i piloti della Nato non possono scaricare i loro missili. Non si uccidono i giornalisti, anche se può accadere, come all’Hotel Palestina, a Bagdad, nel 2003. Tempo fa si è sospettato che Gheddafi dormisse in un’ala del Rixos.
Una collega del Guardian, Harriet Sherwood, ha descritto mesi fa il Rixos come una lussuosa “house arrest”. Una specie di prigione di gran lusso da dove i giornalisti non potevano uscire se non con un accompagnatore (marafiq); dove si poteva essere svegliati in piena notte per una conferenza stampa; dove si poteva essere rimproverati per quel che si era scritto in una corrispondenza; dove si viveva sempre sotto la minaccia di un’espulsione. L’ambiente nel frattempo è migliorato. Si può sempre essere rimproverati per quel che si è scritto; si può essere espulsi (un collega della Bbc che aveva appena ricevuto il visto è stato mandato indietro perché la Bbc aveva dato la notizia della defezione dei giocatori di calcio); ed è sempre necessario uscire con un accompagnatore, anche se le eccezioni sono tollerate. La necessità  di riempire l’Hotel Rixos, disertato da molti giornalisti frustrati dall’impossibilità  di lavorare liberamente, ha spinto a cambiare i toni. Sono aumentati i reporter ospiti, che non pagano il conto. E i visti vengono concessi più facilmente, anche a quelli che lo pagano.
Quel che vedono i giornalisti del Rixos Hotel è la facciata di Tripoli: la facciata di una città  ordinata in cui vedi la gente che va in piazza e non quella che va in prigione. E chi osa sparlare di Gheddafi con uno straniero sconosciuto? La situazione offre l’immagine limitata, amputata, di un forte consenso in favore del regime e del suo raìs. Ed è un’immagine esasperante per i governi dei paesi partecipanti alle operazioni aeree, che appaiono costose e inefficaci. Cosi si è aperta una gara: chi imploderà  prima? Il regime di Tripoli o l’alleanza antilibica della Nato?

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