by Sergio Segio | 19 Luglio 2011 7:16
TORINO.Trent’anni fa molti sconsigliavano a Bruno Pesce, coordinatore della vertenza amianto, e all’avvocato Sergio Bonetto di portare avanti una causa simile. Dicevano: «Un processo ai veri responsabili della strage Eternit non lo faranno mai». Fortunatamente non è stato così. E – se è riuscito l’intento – bisogna ringraziare la testardaggine di un movimento serio e battagliero come quello di Casale Monferrato. Questo, è uno dei tanti motivi per cui il processo di Torino è storico. Ce ne sono altri: mai prima d’ora erano state formulate richieste di condanne così alte (vent’anni chiede il pm Raffele Guariniello per i responsabili di «un disastro immane», il barone belga Louis de Cartier de Marchienne e il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, accusati di disastro ambientale e omissione dolosa di cautele sul lavoro; quasi tremila vittime tra operai, impiegati e cittadini deceduti o ammalati); inoltre, per la prima volta potrebbe essere riconosciuto un risarcimento per danno morale da esposizione ad amianto.
Lo ha chiesto, ieri nell’ultima udienza prima della pausa estiva, l’avvocato Bonetto, che rappresenta oltre 300 delle 6 mila parti civili. «Le parti civili non sono una componente accessoria, sono la prova di una gigantesca tragedia e il danno morale patito prescinde dal fatto che abbiano subito o meno un danno concreto. Esattamente come avviene in un tentato omicidio, dove nessuno negherebbe i danni morali in capo a chi ha rischiato la vita». Basterebbe andare a Casale (50 casi di mesotelioma pleurico all’anno) per togliersi il dubbio: qui, una fitta al petto, una tosse, non sono vissute come altrove. Rimane sempre quel tarlo: «È arrivato, maledetto!». Un’angoscia che logora.
Bonetto fa un ragionamento: «Gli imputati hanno messo in pericolo per un periodo illimitato l’esistenza di migliaia di persone. Solo il caso ha scelto chi si ammalasse e quando. Eternit ha preferito investire nella gestione dell’informazione anziché nelle bonifiche ambientali. Anzi, per la precisione, de Cartier ha fatto finta di non essere coinvolto, Schmidheiny ha curato la sua immagine. Se avessero, invece, investito nelle bonifiche avremmo molti casi di morte in meno. Adesso e nel futuro». Poi, la conclusione: «Se mi espongono a un rischio così grave, io mi costituisco parte civile». Qualora il «danno da esposizione» venisse riconosciuto, sarebbe un precedente per l’ordinamento giudiziario italiano. «Si tratta di una cifra – ha spiegato Bonetto – di 10 mila euro l’anno per ognuno dei miei assistiti, tutti cittadini delle zone di Cavagnolo (Torino) e Casale Monferrato (Alessandria), in cui si trovavano gli stabilimenti piemontesi della Eternit. Il tempo di esposizione si può quantificare mediamente in 20 anni».
Il danno da esposizione è contemplato, invece, in Francia. Lo ha ricordato l’avvocato Jean Paul Teissoniere, uno dei tanti legali stranieri, che formano la «multinazionale delle vittime» al processo di Torino: «Il Tribunale di Lille, nel 2006, ha condannato la Alstom a risarcire i propri lavoratori per il danno d’ansia». «Le catastrofi dei centri italiani non sono isolate – ha proseguito – si sono verificate ovunque vi fossero siti Eternit: Casale, Cavagnolo, Bagnoli, Rubiera. Riguardano il futuro. Come Chernobyl e poi Fukushima, Casale è una catastrofe dell’avvenire». Poi, l’auspicio per la nascita di una Corte internazionale di Giustizia per i crimini ambientali. Insieme a lui, ieri, hanno preso parola avvocati belgi e svizzeri. Come David Hussman che ha constatato due pesi e due misure nelle scarse tutele adottata da Schmidheiny. «Sapevano della cancerogenità dell’amianto. Se in Svizzera l’Eternit non ha fatto molto per i lavoratori, in Italia ha ancora fatto meno». Il processo riprenderà il 26 settembre con le arringhe della difesa.
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