E l’uomo inventò la foresta i cent’anni del bosco ritrovato

by Sergio Segio | 11 Luglio 2011 6:05

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GIAZZA (VERONA). Avvengono tante cose, nella foresta inventata. Il merlo acquaiolo si tuffa nel torrente Fraselle, corre sul fondo e nuota alla ricerca di larve e piccoli molluschi. Il capriolo sta nascosto fra le felci, in attesa del tramonto, quando cercherà  i prati e i ruscelli. I bambini di un centro estivo seguono le tracce della volpe e mangiano fragole di bosco. Più di cent’anni fa queste montagne erano glabre come galline spiumate. «Colpa della fame e della miseria», dice Giustino Mezzalira, direttore della gestione agroforestale di Veneto agricoltura, azienda regionale. «I monti erano ancora popolati, i contadini abbattevano i boschi per avere qualche metro di terra in più per seminare le patate, i pastori per avere pascolo per le loro pecore e capre. Ontani, faggi e abeti venivano tagliati per tenere lontano il gelo dell’inverno o per essere portati a Verona, a riscaldare le case dei ricchi. Con i rami si facevano poi le carbonaie e anche il carbone veniva venduto a valle, per le fucine dei fabbri o il ferro da stiro delle massaie. Il risultato? La montagna è stata completamente spogliata. Senza alberi, la montagna muore. E si vendica, con frane, smottamenti, alluvioni. Nel 1882 il torrente Progno coprì di sassi e fango villaggi e campi. Ci furono anche molte vittime».
C’è stata una festa, sabato, per ricordare i primi cent’anni della foresta inventata e costruita, pezzo dopo pezzo, dall’uomo. Dove ormai c’era la roccia nuda furono messe «graticciate, cordonate, gradonate». «Oggi questi interventi» dice Mezzalira «hanno un nome nuovo e altisonante: bioingegneria. Allora si chiamavano semplicemente opere di consolidamento e rimboschimento ma erano fatte a regola d’arte». A dirigere i lavori, dal 1901 al 1911, fu Angelo Borghetti, responsabile del distretto forestale di Tregnago. Fu lui a proporre le «graticciate vive», base portante del miracolo della foresta ritrovata. Si costruivano i gradoni, con pali, quasi a formare una gabbia. Dentro questa gabbia si mettevano, assieme a sassi che avrebbero permesso il passaggio dell’acqua, anche terreno e soprattutto rami verdi di maggiociondolo, salice, ontano. Il legno della gabbia marciva in poco tempo mentre i rami freschi germogliavano, mettevano radici che si attaccavano al terreno sottostante. Sui terrazzini venivano poi piantati larici, abeti bianchi e rossi, faggi, «allevati» in quello che era l’asilo nido degli alberi, l’«orto forestale».
«I tecnici e i politici di cento anni fa» dice il direttore di Veneto agricoltura «ci hanno dato una lezione importante: il territorio non è una preda ma una risorsa. Lo Stato – quella di Giazza è la prima foresta demaniale in Italia e noi la celebriamo in questo 2011 dichiarato dall’Onu Anno internazionale delle foreste – sapeva che risparmiare sulla natura avrebbe provocato disastri. Per questo l’Italia comprò anche la parte di foresta trentina, che allora faceva parte dell’impero austroungarico, e investì risorse imponenti, 175.268 lire, per fare rinascere la foresta in tutti i 1.904 ettari depredati. Ma quanti danni sono stati evitati, da allora, grazie a questo intervento?».
Le autorità  salirono nella foresta ritrovata a dorso di mulo, il giorno dell’inaugurazione, il 10 agosto 1911. C’era anche il ministro dell’Agricoltura del governo Giolitti, Francesco Saverio Nitti, che sarebbe poi diventato primo ministro. «Ancora oggi» racconta Pierino Del Dosso, che segue i lavori forestali nella Giazza «dobbiamo curare i boschi come fossero figli. Ma le opere di cento anni fa ancora resistono. Per il rimboschimento, dove è necessario, usiamo tecniche simili a quelle di Angelo Borghetti. Costruiamo le “palificate”, ma dentro le gabbie ci sono i rami vivi di maggiociondolo e salice, come in quelle del maestro di un secolo fa. Le risorse sono però sempre più limitate. Quando ho iniziato io, trent’anni fa, avevamo 28 stagionali assunti per 160 giorni all’anno. Adesso sono 11, e salvo miracoli non riusciranno a lavorare più di 100 giornate».
Resistono anche le vecchie opere di irregimentazione delle acque. Gabbie di sassi per fermare la forza dei torrenti, sbarramenti per poter recuperare i sassi divelti. «Nelle nostre montagne» dice Mezzalira «non abita quasi più nessuno. Ma ci sono Paesi come il Pakistan o il Nepal dove le montagne sono ancora molto abitate e dove contadini e pastori stanno facendo gli stessi errori fatti qui oltre un secolo fa. Là  la manodopera costa come da noi agli inizi del ‘900. Vorremmo incontrare quei contadini, insegnare loro la tecnica antica con la quale, grazie alla “gabbia viva”, anche le foreste possono risorgere».

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