Dai braccianti ai call center, storie da inizio secolo

by Sergio Segio | 24 Luglio 2011 6:57

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 Un’animata discussione ha impegnato il manifesto a partire dall’articolo a più voci «La classe non è acqua». Sulla questione del bilancio pubblico non ho niente da aggiungere al giudizio sulla «rareté desirée, una ‘scarsità ‘ voluta e prodotta, per i rapporti di classe e di potere». Sulla questione, invece, del rapporto reddito/lavoro sottoscrivo pienamente l’affermazione che sono necessari «una critica e una lotta che nascono in un momento e in un luogo precisi: la messa in questione, nelle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta, di ‘cosa’, ‘come’ e ‘quanto’, e ‘dove’ produrre. Una tradizione che forse a tutt’oggi è più ricca di molte delle ‘novità ‘» spesso inseguite in molti ambienti politici.

Ma vorrei suggerire qualche spunto di riflessione a partire dalla mia pratica di storica dei mondi del lavoro. Potremmo dire allora con Luigi Ferrajoli – autore del recentissimo Poteri selvaggi – che il diritto al lavoro e quindi alla continuità  del reddito attraverso di esso non è, da sempre, compatibile con il capitalismo, mentre lo sarebbe un reddito di sussistenza. Le ragioni che Ferrajoli adduce – e che non necessariamente devono portare alle sue conclusioni – sono confortate dalla lunga storia del welfare «dal basso e dall’alto».
Facciamo un esempio che riguarda la grande esperienza che il sindacato novecentesco ha avuto come organizzazione di precari (non solo per ragioni contrattuali, ma per la stagionalità  della prestazione): i braccianti. L’imponibile di mano d’opera, conquistata nel I e poi nel II dopoguerra, fu abolita nel ’59 dalla Corte Costituzionale dopo una lunga e tenace battaglia di Luigi Einaudi che affermava che essa era una tassa sulla proprietà  e una indebita violazione del diritto ad essa connesso. La continuità  di reddito doveva essere garantita – era anche una questione di quella che oggi chiameremmo coesione sociale – ma non a detrimento del diritto a decidere dei proprietari.
Un esempio del fatto che il sussidio monetario non ha niente di sovversivo, secondo la lettura che ne viene data dai suoi teorici, indicati dall’articolo prima citato, ma confina i suoi percettori nell’ambito della povertà  assistita, del residuum che perde per ciò stesso il potere contrattuale derivante dalla professionalità .
In un intervento di risposta a Ferrajoli del 15 giugno, su questo giornale, Mario Sai ha osservato giustamente che il reddito incondizionato non intercetta i reali bisogni di un precariato altamente qualificato (dipendente e autonomo), che vanno dalla valorizzazione del loro lavoro a un welfare rimodellato secondo nuove e vecchie esigenze: «reddito nella discontinuità  occupazionale, formazione continua, adeguate pensioni, servizi sociali essenziali» invece di «esclusione risarcita».
Sono osservazioni senz’altro condivisibili che indicano uno spazio innovativo di contrattazione e di legislazione. Ma il precariato riguarda anche milioni di dipendenti del commercio, della pubblica amministrazione, della stessa industria. C’è una lunga storia dei precari che hanno lavorato accanto e insieme agli operai stabili: pensiamo alla manutenzione nella siderurgia, spesso effettuata da licenziati della stessa impresa…
Non c’è dubbio, allora, che alla base della richiesta di reddito indipendente dal lavoro – non da parte di gruppi organizzati, ma come esigenza che emerge da inchieste fra i lavoratori – stanno la sfiducia nelle capacità  individuali e collettive di conquistare salario e il dubbio sulla continuità  della cassa integrazione speciale. In un’inchiesta svolta da Rifondazione comunista a Piombino, la richiesta di reddito è presente insieme ad altri ammortizzatori sociali, fra tutti i salariati siderurgici piombinesi; ma in misura maggiore fra gli elettori di centro-destra, dove è più grave la sfiducia nelle capacità  contrattuali dei propri sindacati.
Insomma: esigenza di reddito in un paese popolato di working poors e richiesta di una trincea in cui rifugiarsi contro la ferocia del mercato del lavoro nella crisi. Queste richieste vanno interpretate, rielaborate e trasformate in programma per una nuova politica di governo del mercato del lavoro e di intervento pubblico, per una nuova politica industriale.

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