Da Napoleone al nazismo, la Valle che non si piega
Sarà dura, lo è sempre stata. Lo slogan più diffuso in Val Susa, in fondo, è il calco di un carattere locale. Poco avvezzo al giogo, facile al rogo, pronto al riso, al grido e alla danza macabra, fatto diffidente ai limiti dell’asprezza da secoli di transiti ostili (forse anche Annibale) e invasioni. Fin dalla soglia della valle meraviglie, oscurità e inquietudini si offrono al viaggiatore. Due moli incombono su di lui: a sud la Sacra di San Michele con il salto vertiginoso della bell’Alda (l’angelo l’accoglie fra le braccia per salvarla dai pirati saraceni), lo scalone nero dei morti e i mostri in pietra – chimere, sirene, basilischi – sui portali. A nord le pendici nude del Musinè, la montagna che nei secoli ha condensato le paure di chi dalla piana si incamminava verso i valichi delle Alpi.
Di volta in volta popolata di streghe, fantasmi, dischi volanti e giacimenti di uranio. Dispensatrice di segni celesti, se è vero che alle sue falde Costantino vide la croce con l’insegna fatale: In hoc signo vinces.
Sacro e profano si fronteggiano, a volte si confondono o volteggiano insieme in ridda, come nell’ospedale templare di Sant’Antonio di Ranverso che custodisce uno dei massimi capolavori del gotico internazionale: il ciclo delle tentazioni di Sant’Antonio di Giacomo Jacquerio, sarabanda di grinte, ghigne e musi in macabra danza beffarda. O come nella storia millenaria della potentissima abbazia benedettina della Novalesa, fondata da Abbone (a cui si ispira Umberto Eco nel Nome della rosa), privilegiata da Pipino il Breve e Carlo Magno, culla di santi come Eldrado, Giusto e Fabiano, signora di terre dalla Liguria alla Lomellina e soprattutto indomita nel ricostruirsi dopo le invasioni: distrutta dai saraceni, confiscata da Napoleone e poi dal governo sabaudo, minacciata dai trafori dell’alta velocità , sempre resistente e sempre rinata.
La fama ribelle della valle si lega poi a lotte nobilissime, nobili e meno nobili: in primo luogo la lotta antinazista, qui più aspra che altrove, incisa a fuoco nella memoria locale che intitola le vie a eroi partigiani altrove sconosciuti, e negli anni 70 stravolta nei deliri lottarmatisti di chi diede vita qui a una delle colonne più massicce e sanguinarie di Prima Linea. Poi battaglie civili come quella, dimenticata e vittoriosa, contro l’elettrodotto francese che a metà degli anni 80 prometteva il paradiso energetico a tutta Italia, al prezzo dello scempio locale: le prove di impatto ambientale condotte lanciando palloncini nell’aria per mostrare che a una certa altezza i fili non si vedevano neppure, trascurando il dettaglio che le basi dei tralicci sarebbero state pari a palazzi di sei piani. Il progetto, dimostrato inutile, fu abbandonato dopo dieci anni di lotte: un precedente curioso e denso di suggestive analogie. Quindi la resistenza alla ‘ndrangheta, capace di infiltrare l’economia e le istituzioni della valle fino a fare di Bardonecchia il primo comune del nord sciolto per mafia. E quella contro depistaggi, trame e diffamazioni come quelle che ruotarono intorno alla tristissima vicenda dei processi del 1998, sostenuti da “prove granitiche” destinate a sciogliersi come neve al sole non prima di aver forzato al suicidio due ragazzi di poco più di vent’anni: Edoardo Massari e Soledad Rosas. Era l’anno dei “fuochi strani”, dimenticati da tutti ma non dai valsusini: gli attentati notturni ad alta tecnologia, fra telecamere di sorveglianza misteriosamente diserte proprio al momento dell’assalto (cantiere Tav di Prapuntin) e centraline elettroniche disattivate con disinvoltura, benché difese da codici inaccessibili (galleria di Giaglione). Oppure i delitti di Franco Fuschi: serial killer da quattordici ergastoli mai emerso dalle cronache locali a differenza di “colleghi” ben meno efficienti. Forse perché confidente delle forze dell’ordine e di funzionari del Sisde che in seguito risultarono coinvolti, con uomini delle forze dell’ordine locali, in un traffico d’armi che aveva centro nell’armeria Brown Bess di Susa. Storie di fuochi notturni, di inganni e di soprusi piccoli e grandi che fondano la fama di rudezza e diffidenza dei locali.
Oggi molti si sentono circondati: informazione e politica, e di conseguenza il senso comune di pianura e città , sono ormai compatti nella condanna. Soffiatori sul fuoco riservano il titolo di “delinquenti” indistintamente a parroci e ortolani e ai professionisti della spranga e del passamontagna che nutrono a spese della valle il loro narciso guerrigliero. Non c’è dubbio che domenica scorsa un grande movimento, piantato su radici ribelli che affondano nei secoli, abbia perso una battaglia importante, forse quella decisiva. Ma non serve dire agli abitanti della valle di Susa che “è inutile battersi”. È un argomento che non fa breccia con loro: sanno che è sempre stata dura. Lo sarà ancora.
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