by Sergio Segio | 14 Luglio 2011 5:47
Prima regola: un dipendente è un dipendente. In quanto tale, deve avere la possibilità di difendere i propri diritti. Il che diventa difficile se l’atmosfera è da pacche sulle spalle o scambio di confidenze tra vecchie amiche. Ecco perché è meglio non dare e non ricevere un democratico «tu» da chi lavora in casa nostra, rifà i letti, accudisce bambini e anziani e stira le nostre camice.
Dopo anni di corsi per “istruire” le tate arrivate da lontano, comincia – finalmente – a formarsi un nuovo galateo, quello che i padroni di casa seguono, o dovrebbero seguire, nei rapporti con la colf. Ed è nato perfino uno spettacolo teatrale, tratto dall’unico libro italiano sul tema, La serva serve, di Cristina Morini, messo in scena da Cinzia Ceruti: «All’inizio gli spettatori si lamentavano, era un ritratto forse impietoso di ciò che accade nelle nostre case… Ma nel tempo, con la crisi, il clima è cambiato, la differenza tra le donne che lavorano nelle case e quelle che lavorano fuori si è accorciata».
Dal palcoscenico, ma anche dai blog e dalle testimonianze delle “donne globali” che hanno attraversato l’oceano per venire a tentare un’altra vita, rimbalzano nevrosi e contraddizioni della società italiana. E dei suoi sensi di colpa: dietro ogni donna affermata che tenta una carriera con successo, dietro ogni professionista che esce al mattino e rientra alla sera, c’è almeno un’altra donna che lava, pulisce e riporta ordine in casa e tranquillità in famiglia. Lo hanno raccontato fin troppo efficacemente due sociologhe americane, Barbara Ehrenreich e Arlie Russell Hochschild. «Dietro i flussi migratori che portano tate filippine nelle case italiane o newyorchesi, donne cinesi in quelle di Taiwan, badanti rumene accanto agli anziani di tutta l’Europa occidentale, c’è un nuovo colonialismo, un capitalismo che commercia cura, amore e affetti anziché petrolio o tecnologie» dice Ehrenreich. Il bilancio etico non è in equilibrio, quello affettivo un po’ di più, ora che anche in Italia sta arrivando alla laurea la prima generazione allevata da tate venute da lontano. «Non si deve chiedere a nessuno di lavorare a condizioni che noi italiani non riteniamo più accettabili» dice Laura Malanca, dirigente di Acli Colf, l’associazione aclista più attiva nella tutela dei diritti dei lavoratori domestici, a Torino. «Per questo non ci stanchiamo di raccomandare ai datori di lavoro italiani che vengono da noi alla ricerca della collaboratrice ideale di essere scrupolosi nel rispetto di orari e contratto, puntuali nei pagamenti, attenti a ogni aspetto della dignità della persona. Poi, certo, se nasce anche un rapporto di stima personale è molto positivo per tutti».
Dunque, se al primo posto sta il rispetto delle forme e soprattutto dei diritti (oltre al «lei», ai pagamenti equi e puntuali, agli orari rispettati, agli spazi adeguati per chi vive in casa, anche se il 60 per cento delle tate racconta di essersi fermata al lavoro oltre il limite previsto o nei giorni di festa), al secondo gradino si possono collocare le relazioni umane, tra donne e tra persone. Le stesse che molte italiane consegnano, come Maria Elisabetta Gandolfi: «Quando la mia tata arrivata dall’Est europeo ha ottenuto il permesso di soggiorno illimitato, me lo ha mostrato commossa, tra le lacrime. Il suo primo pensiero è stato mandarmi un sms dalla Questura. Ora anche lei potrà portare qui i suoi figli, almeno per le vacanze». Già , perché la separazione dai figli è uno dei grandi drammi delle “donne che lavorano per altre donne”. Ecco perché, nel galateo ideale, c’è l’accoglienza dei figli: «Quando il nostro bambino deve restare a casa da scuola per un raffreddore, abbiamo due alternative: restare a casa anche noi o chiamare la tata perché venga prima» dice Lodovica Peiretti di Donne&manager di Milano. «E loro? Serve pragmatismo, le porte di casa devono restare aperte per chi viene a lavorare e non sa dove lasciare i figli».
Infine, i regali e la cucina: alzi la mano chi non ha mai ricevuto un souvenir di conchiglie, una specialità gastronomica o una tovaglia ricamata dalla tata che rientrava dalle vacanze. È un dono, spesso pregiato e costoso, e va rispettato: non si ricicla e non si mette in cantina, ma si conserva in casa dopo i ringraziamenti adeguati. Quanto alle ricette esotiche, sono ottime, e possono essere ricambiate con quelle della nonna.
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