Cittadini modello. Così una vita migliore aiuta l’integrazione

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La retorica anti-multiculturale nel Vecchio Continente riflette una profonda incomprensione delle dinamiche dell’immigrazione nelle democrazie liberali dei paesi ricchi dell’Occidente. L’assunto fondamentale sembra essere che eccedendo nel riconoscimento positivo delle differenze culturali si favorisca la ghettizzazione e il rifiuto dell’etica politica della democrazia liberale stessa. Come se il ripiegamento su di sé fosse una scelta a priori degli immigrati stessi, dalla quale devono essere dissuasi con «benevola severità ». In un certo senso, è comprensibile che i politici che non hanno molta esperienza delle dinamiche delle società  di immigrazione incorrano in questo errore. All’inizio, infatti, gli immigrati tendono sempre ad aggregarsi a persone di origini e retroterra simili ai loro. Altrimenti come potrebbero trovare le reti di sostegno necessarie per sopravvivere e andare avanti in un ambiente completamente nuovo? (…)
La principale motivazione degli immigrati nei paesi ricchi e democratici, tuttavia, è la ricerca di nuove opportunità  di lavoro, istruzione o espressione individuale, per se stessi e soprattutto per i loro figli. Se riescono a raggiungere questi obiettivi, gli immigrati – e ancor più i loro figli – sono ben contenti di integrarsi nella società . Solo se le loro speranze vengono deluse, se la via d’accesso all’istruzione e a un lavoro più remunerativo viene bloccata, può generarsi un senso di alienazione e ostilità  nei confronti della nazione di accoglienza, o addirittura un rifiuto della società  mainstream e dei suoi valori.
Di conseguenza, la campagna europea contro il «multiculturalismo» spesso sembra essere un classico caso di «falsa coscienza», in cui la colpa di determinati fenomeni di ghettizzazione e alienazione degli immigrati viene addossata a un’ideologia esterna, invece di riconoscere l’incapacità  della politica nazionale di promuovere l’integrazione e combattere la discriminazione. (…)
Qual è l’obiettivo, dunque, delle politiche e dei programmi multiculturali? Essi nascono dalla consapevolezza che ogni società  democratica abbia un modello di interazione sviluppatosi nel corso del tempo e generalmente condiviso. Con questa formula mi riferisco all’insieme delle modalità  con cui i membri della società  si relazionano in una pluralità  di contesti: come concittadini di uno Stato, come membri di organizzazioni politiche o di altro tipo, come dipendenti o datori di lavoro all’interno di un’azienda, come commercianti o clienti, e via di seguito. È così che si sviluppa l’idea di come dovrebbe essere il cittadino, il dipendente o il membro di un’organizzazione modello, di ciò che ci si aspetta da lui o da lei, del tipo di relazioni che dovrebbe instaurare con gli altri, delle diverse forme di intimità  o di distanza, dei presupposti che determinano il divario sociale, e così via. La sfida multiculturale si pone nel momento in cui questo modello di interazione definisce determinate categorie di individui come beneficiari dello status di cittadini, membri, attori economici, ecc. a tutti gli effetti, che godono del normale livello di intimità  e di riconoscimento da parte degli altri, negando tale status al resto della popolazione. Questo fenomeno si verifica, per esempio, quando agli individui di una determinata discendenza genealogica viene accordato, in virtù delle origini storiche della società , lo status di cittadini o membri a pieno titolo, mentre tutti gli altri vengono considerati in modo diverso. (…)
Ma come si può attuare uno scenario interculturale? I leader e i membri della società  maggioritaria o mainstream devono entrare in contatto con i leader e i membri delle minoranze, cercare insieme a questi ultimi nuove soluzioni per risolvere i conflitti e poi collaborare proficuamente per attuarle (è quanto ha fatto, per esempio, Job Cohen quando era sindaco di Amsterdam). L’insieme di queste iniziative improntate alla collaborazione favorisce la creazione di un modello di interazione più inclusivo.
Forse occorre una maggiore consapevolezza delle condizioni degli immigrati. La stragrande maggioranza degli immigrati nei paesi ricchi del Nord del mondo è spinta ad abbandonare la terra d’origine dalla speranza di una vita migliore per sé e per i propri figli. Milioni di persone aspirano a quell’obiettivo, e a volte rischiano la vita in mare, o stipate nei container, per avere anche solo una minima possibilità  di arrivare a destinazione. Che cosa significa «una vita migliore»? Per alcuni è sinonimo di un paese che offra una relativa libertà , sicurezza e diritti umani. Per quasi tutti, però, significa nuove opportunità , e in particolare l’accesso a un posto di lavoro più gratificante e a un’istruzione che garantisca ai loro figli un futuro di maggiore sicurezza e benessere.
Se i loro tentativi sono coronati da successo, ecco che può crearsi un legame straordinariamente positivo con la società  di accoglienza, un senso di gratitudine e di appartenenza simile a quello che spesso viene manifestato dagli immigrati negli Stati Uniti, e talvolta anche in Canada. E di solito accade proprio questo, a patto che la speranza non sia vanificata, che l’accesso all’agognato posto di lavoro non venga sistematicamente bloccato dalla discriminazione o da altri fattori strutturali, che la partecipazione ad altre strutture sociali non sia ostacolata dai pregiudizi e che gli immigrati non vengano stigmatizzati e bollati come estranei che rappresentano un pericolo per la società . In caso contrario, il rancore che ne risulta è direttamente proporzionale alla portata della speranza che l’aveva preceduto, e rischia di provocare un profondo senso di alienazione.
(Traduzione di Enrico Del Sero)


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