Ciao Peppe. La forza e il coraggio

by Sergio Segio | 31 Luglio 2011 8:46

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Il tempo appena di chiamare «Attilio», e morire tra le braccia di Attilio Bolzoni, l’amico con cui aveva indagato per anni sui misteri criminali della mafia. Il giornalismo è così, brucia giornate e settimane intere di lavoro nello spazio di un articolo, di un titolo, di una fotografia. Sembra una condanna all’effimero, dove nulla dura abbastanza per acquistare sostanza e tutto è subito sopravanzato dall’urto della cronaca. E invece, qualcosa si deposita ogni giorno, dal fondo di questo mestiere, mentre si compie. È un accumulo di conoscenza e di sapere, non di semplice esperienza, quella che si può davvero chiamare l’intelligenza degli avvenimenti.
E insieme (più difficile da riconoscere nei tempi convulsi in cui il giornale prende forma e si fa, ogni giorno) è un deposito di umanità  e di passione, che lega le persone nelle loro diversità  e anche nella naturale competizione: attraverso il gioire e il patire insieme, condividendo campagne e battaglie, o anche lo sforzo semplice ma necessario di comprensione dei fenomeni che abbiamo davanti.
È il sentimento del giornale, che è il senso di un’avventura comune. Per questo noi di «Repubblica» piangiamo prima di ogni cosa il nostro compagno, con cui abbiamo diviso passaggi difficili e momenti esaltanti, attraverso arrabbiature, soddisfazioni, tentativi, scoperte, per trovare al giornalismo quella strada che gli consentisse ogni volta di venire a capo di tutto, e risolvere ogni cosa. Perché questo interessava a D’Avanzo: il giornalismo. Poter fronteggiare la realtà , poterla indagare e decifrare applicando gli strumenti e le regole del mestiere, senza risparmiarsi mai, con un’adesione quasi fisica alla sua passione che era diventata una missione. Nelle situazioni più complesse, quando la realtà  apparente sembrava dar torto al nostro lavoro, D’Avanzo sapeva richiamare se stesso, noi e dunque i lettori alla realtà  vera delle cose, badando alla sostanza.
Durante le grandi campagne di stampa di cui è stato protagonista, quando il rapporto di forza tra un giornale e il potere dominante sembrava sproporzionato e squilibrante, se qualcuno domandava dov’era il punto d’arrivo, la via d’uscita, lui rispondeva sicuro: non ce n’è bisogno, noi abbiamo messo in moto qualcosa di importante, il potere reagirà  e il nostro giornalismo deciderà  da solo come rispondere. È semplice. Sapeva rendere semplici situazioni complesse. Il suo giornalismo era cresciuto negli anni, ma ancora lo esaltava la grande cronaca, stava ragionando su un’inchiesta in val di Susa sulla Tav, voleva tornare a Napoli per i rifiuti, era attirato dallo scandalo della pedofilia in Vaticano e dalle convulsioni della Rai. Ma con gli anni, aveva imparato a trarre da ogni vicenda il filo invisibile che riporta al potere, e svela come il potere agisce. In questo la sua capacità  di analisi si era affinata, attraversava la politica, l’economia, la giustizia, e gli consentiva ogni volta di arrivare al cuore del potere italiano, dandone una rappresentazione impietosa perché veritiera. Era ormai il protagonista di un’operazione giornalistica e culturale senza uguali, un’indagine permanente sul potere. Che infatti lo temeva più di qualsiasi altro giornalista.
Non si può dimenticare che D’Avanzo è stato spiato e pedinato nel corso delle sue inchieste più delicate, che una delle varie diramazioni miserabili dei nostri servizi segreti (che dovrebbero servire lo Stato democratico e le sue istituzioni) preparava dossier su di lui, che l’ansia impaurita di questi funzionari deviati li aveva spinti più volte a chiedere a giornalisti infedeli su che cosa stava lavorando D’Avanzo, che cosa stava scrivendo, che articolo preparava per il giorno seguente. Sapeva perfettamente di essersi spinto in territori pericolosi, sapeva che la forza delle sue inchieste lo esponeva personalmente, soprattutto davanti ai metodi obliqui e irresponsabili di quella che aveva svelato e battezzato come la «macchina del fango». Da qui, anche, la sua solitudine, il sentimento individuale del rischio, la ricerca continua di una condivisione necessaria con il vertice del giornale. E la scelta di vivere senza mai potersi permettere un errore, dunque senza nessun rapporto con i potenti, uomini della politica o dell’economia, decidendo ogni volta cosa scrivere in base ai dati nudi della realtà , e a nient’altro, senza condizionamenti di alcun genere.
Tutto ciò già  dagli anni di Falcone, del lavoro sulla mafia. Poi nelle grandi inchieste internazionali, come il caso Abu Omar e il Nigergate. O lo scandalo delle tangenti Telekom Serbia, svelato su «Repubblica» quando al governo c’era la sinistra, e poi smontato nella gigantesca calunnia successiva, quando la destra organizzò una campagna diffamatoria e falsa contro Prodi, Dini e Fassino. Fino al lungo lavoro finale su Berlusconi e sull’anomalia della destra italiana, quando dallo scandalo di Noemi Letizia, dalla denuncia di Veronica Lario e dalle contraddizioni del premier nacquero le 10 domande, scritte da D’Avanzo e finite sui giornali di tutto il mondo, a prova dell’irresponsabilità  del potere. Il caso Ruby innescò una nuova inchiesta giornalistica, questa volta con l’indicazione di dieci bugie del Presidente del Consiglio, pubblicate ogni giorno per sei mesi, senza che Palazzo Chigi potesse smentirle. In più, il lavoro di anni sulla «struttura Delta», quella macchina del consenso che D’Avanzo vide per primo, al crocevia tra politica ed editoria, e che orchestrava l’informazione Rai e Mediaset a danno dei lettori e a vantaggio dell’azienda e della politica del premier.
Infine, la battaglia sulle leggi ad personam, che ha visto sempre D’Avanzo in prima linea, fino a dirottare (insieme con i lettori e altre forze capaci di reagire) la «legge bavaglio» sulle intercettazioni telefoniche. Ecco perché i lettori avevano imparato a considerarlo non semplicemente un giornalista, ma un punto di riferimento. Lo era anche per me, nelle telefonate mattutine, quando cercavamo di capire la direzione in cui si muoveva la giornata, commentavamo i segnali che arrivavano dai giornali, provavamo ad anticipare le mosse del potere, per poterle intercettare giornalisticamente. Adesso quelle telefonate non ci saranno più. Non riesco nemmeno a guardare le foto di Peppe mentre lavora, a immaginarlo quando entra nella mia stanza e dice «C’è roba». Quando s’incazza, e non c’è verso di fargli cambiare idea. Quando critica, magari esagerando, ma sempre con un fondo di passione autentica per il giornalismo, per cui ogni volta – come ripetevamo tra noi – «vale la pena». Quando svela, come ancora giovedì scorso, incurvando le spalle, sentimenti delicati e profondi, che il mestiere regala senza dirtelo, dopo anni passati insieme. Su quelle spalle potenti, abbiamo caricato il peso di alcune partite giornalistiche tra le più difficili che «Repubblica» ha dovuto e voluto giocare, e che ha portato avanti grazie alla comune fiducia nel giornalismo, in democrazia, Ora quelle spalle che Marina ieri ha abbracciato per l’ultima volta, non hanno più retto. E noi alla fine piangiamo senza rimedio Peppe, il nostro compagno che non c’è più.

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