Che fine ha fatto il ceto medio

by Sergio Segio | 29 Luglio 2011 6:43

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In India, è facile: è ceto medio chi ha lo scooter, la tv color, il telefonino. In Italia è più complesso. Secondo l’Ocse, è ceto medio “chi dispone di una vita confortevole”. Ovvero, “casa, lavoro stabile, cure mediche, scuole e università , pensione, qualche soldo per il tempo libero”. Su questa base, gli anni Ottanta hanno visto la classe operaia sciogliersi nel mare delle classi medie, dove a (quasi) tutti è sembrato possibile avere la casa in proprietà  (anche se con il mutuo) e i figli all’università . Il risultato è, però, quella che Wright Mills definì “un’insalata”, la cui mappatura è pressochè impossibile. In questo senso, i ceti medi più che riconosciuti e definiti, vanno costruiti, incrociando psicologia ed economia, sostengono Rocco Sciarrone, Nicoletta Bosco, Antonella Meo e Luca Storti, nel loro La costruzione del ceto medio (Il Mulino, 368 pagine, 30 euro). Il volume è un’analisi accurata di come i media, fra inchieste e commenti, hanno seguito, negli ultimi vent’anni, l’evoluzione di quella sorta di classe media generale, che gli anni Ottanta avevano inaugurato. Ma, in realtà , con il lungo ristagno dell’economia, avviato negli anni Novanta, è la cronaca di un processo a ritroso, quasi una discesa agli inferi, con il progressivo smantellamento di quei parametri indicati dall’Ocse, il diffondersi a macchia d’olio di una sensazione, sempre più forte, di insicurezza e di instabilità , riassunta nella ormai prevalente convinzione – cruciale per qualsiasi psicologia di classe media – che “i nostri figli staranno peggio di noi”.
Anche se l’analisi è concentrata sui media, gli autori imputano, in particolare, ai partiti politici l’incapacità  di formulare, in questi anni, un progetto per le classi medie, al di là  dell’inseguimento di interessi particolari. La costruzione politica del ceto medio, dicono, è carente. È un’accusa, forse, troppo generica. I dati elettorali dell’ultimo decennio delineano due schieramenti abbastanza definiti. Pubblico impiego, dirigenti e impiegati del settore privato con il centro sinistra. Liberi professionisti, imprenditori, commercianti e basse qualifiche del settore privato con il centro destra. Al cuore di questa contrapposizione, c’era, soprattutto, la questione fiscale e la divaricazione fra quello che una fortunata invenzione giornalistica definì “il popolo delle partite Iva”, a cui è socchiusa la porta dell’evasione, e l’esercito delle buste paga, che la vede sbarrata. Era uno scontro non di valori, ma di soldi. Le ricerche della Banca d’Italia documentano, nel lungo ristagno italiano, il declino di salari e stipendi e l’incremento dei redditi dei lavoratori autonomi.
Fino a che, sul ristagno, non è arrivata la crisi, che ha tagliato i redditi per tutti e fatto esplodere anche il recinto delle partite Iva, ormai colonizzato da precari co. co. co e immigrati. La ritirata dei ceti medi è ormai generale. Non servono neanche i dati dei sondaggi, che documentano come sempre meno italiani sentano di rispondere ai requisiti delle classi medie. Bastano i dati economici: nel 1993, gli italiani destinavano quasi il 20 per cento del reddito a quel monumento della classe media che è il risparmio. Oggi siamo appena al 6 per cento. Paradossalmente, forse, è proprio mentre il ceto medio si svuota che diventa più facile pensarlo come progetto politico.

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