Che cosa resterà  degli indignados d’Europa

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I giovani che manifestano sono soprattutto studenti: sostenuti dalla maggioranza della popolazione, contestano i partiti, e in particolare quelli di sinistra, che ai loro occhi non rappresentano più l’opinione pubblica, e quindi svuotano la democrazia di ogni suo significato.
In questo grande movimento per una risurrezione democratica alcuni gruppi mettono addirittura in discussione la stessa democrazia, come sempre avviene nelle frange più radicali dei movimenti che si oppongono alle istituzioni politiche. Ma finora è preminente la volontà  di dar vita a una democrazia diretta, assembleare, all’insegna delle assemblee generali delle università  francesi nel maggio 1968. In Spagna questo movimento ha provocato la massiccia sconfitta dei socialisti alle elezioni, soprattutto in Catalogna. In Grecia l’opposizione nazionalista ha contestato con più forza gli accordi proposti dall’Europa e dall’Fmi per scongiurare il fallimento del Paese. Alla fine però questi accordi sono stati approvati, evitando alla Grecia una situazione catastrofica, che avrebbe messo a repentaglio l’esistenza stessa dell’euro.
Se è vero che l’opinione pubblica è stata largamente informata della loro esistenza, di fatto questi movimenti, sorti innanzitutto grazie alla comunicazione diretta attraverso le reti sociali quali Facebook o Twitter, non sono stati definiti con sufficiente chiarezza dai media, e in particolare dalla televisione.
È indispensabile invece comprendere questi movimenti, che segnano una profonda frattura nella vita politica di numerosi Paesi. Ciò che mettono in discussione è innanzitutto il principio della democrazia rappresentativa. In altri termini, respingono l’idea, insita nella rappresentazione classica della vita politica in Europa, che le rivendicazioni e le proteste sociali e culturali sorte dai gruppi sociali trovino un’espressione più o meno completa nei partiti politici; e rifiutano di vedere in essi i rappresentanti politici degli interessi popolari e dei conflitti sociali. A riprova, basti constatare che i sindacati sono contestati allo stesso titolo dei partiti politici.
Ecco perché dobbiamo porre la domanda più generale sollevata da questi movimenti: quale può essere oggi la base di legittimità  dell’azione politica? La sola formulazione di questa domanda ci getta nella confusione e nell’inquietudine, anche perché tutti riconoscono che i partiti, i sindacati e le altre organizzazioni politiche hanno perduto gran parte della loro legittimità . La situazione è particolarmente inquietante in un Paese come la Spagna, entrato nella vita democratica solo dopo la morte di Franco, nel 1975 – anche se qui i timori non sono del tipo classico, dato che nessuno immagina la preparazione di un colpo di stato militare o di qualche altra azione antidemocratica.
Si può incominciare a comprendere meglio la natura e l’importanza di questi movimenti vedendo in essi la rivolta di una gioventù che si sente privata della propria qualità  di cittadini ad opera dei politici, in particolare di sinistra – i quali a loro volta si considerano penalizzati da una logica economica irresistibile, in quanto globale. Si spiega così la forza della carica emotiva di questi movimenti, e dell’impegno dei partecipanti, che solo in misura minore fa riferimento al conflitto di interessi aperto tra i cittadini e una logica economica che rifiuta qualsiasi intervento degli attori, accusandoli di essere impotenti a livello mondiale. Per gli ideologi della globalizzazione tutto – e in modo particolare la vita politica – deve assoggettarsi alla logica del progetto economico mondiale.
Nel riconoscere la propria impotenza, i partiti tradiscono gli interessi, e soprattutto le esigenze e i progetti di chi ha perso ogni fiducia in loro, e nei meccanismi della democrazia rappresentativa. Il razionalismo politico che animava le idee e le prassi della democrazia rappresentativa è al tracollo; i giovani non credono ormai più nella capacità  d’azione delle istituzioni politiche. È qualcosa di più di una crisi economica e persino politica. Siamo in presenza di una crisi più generale, di perdita di senso, non di una politica, ma della politica stessa.
Questa crisi della politica mette in discussione più particolarmente i partiti di sinistra, che per definizione s’intendono come i difensori dei diritti e delle libertà  della popolazione. Al di là  del problema, pure gravissimo, degli alti livelli di disoccupazione giovanile, non siamo più nell’ordine dei conflitti economici e sociali, ma in quello della contraddizione tra i diritti umani fondamentali e la violenza del dominio del profitto capitalista sopra ogni altra finalità  del sistema sociale.
Nel caso italiano, la lotta si concentra innanzitutto su Silvio Berlusconi, sia come individuo che come capo del governo; e ciò spiega il suo carattere meno radicale, a confronto col livello raggiunto in breve tempo dal movimento spagnolo. Ma in Italia e in Spagna, il senso generale della sollevazione è lo stesso. Ed è anche molto vicino a quello delle rivolte in Tunisia e in Egitto, contro la distruzione della vita politica ad opera dei dittatori, delle loro famiglie e degli ambienti corrotti più direttamente legati a un potere autoritario.
Non ho parlato di movimenti rivoluzionari: ho forse sbagliato? Sappiamo che una crisi politica può diventare rivoluzionaria se si verifica un incidente, una scintilla, come nei casi dei manifestanti uccisi dalle forze armate o dalla polizia, o di chi si è immolato per rovesciare il potere costituito con le sue insopportabili imposizioni.
Di fatto però, i movimenti attuali sono lontani dall’essere rivoluzionari, data l’estrema distanza tra le motivazioni dei partecipanti e le categorie delle azioni politiche possibili. Ma andiamo oltre: i movimenti attuali possono avere in sé alcuni elementi di debolezza, se non addirittura di autodistruzione, dato che il rifiuto dell’azione dei partiti può ridurli a trovare il proprio dinamismo soltanto nel timore della repressione e delle lotte interne. L’azione fondata sulla paura può indurre i movimenti ad anteporre la propria unità  a qualunque altro obiettivo. Con come conseguenza il rischio di scissioni a catena, o al contrario quello di un nuovo orientamento in senso autoritario. La primavera araba potrà  far rinascere in quei Paesi la capacità  d’azione politica solo se ad animarla non sarà  la paura del nemico, ma la volontà  di affermare i diritti di tutti, al disopra di qualunque obiettivo propriamente politico. In generale, le rivoluzioni conducono in brevissimo tempo a nuovi regimi autoritari, imposti con la forza. Una soluzione democratica non può venire che da una separazione non solo accettata, ma voluta, tra il movimento popolare e le ricostituite forze politiche.
Quanto più un movimento è forza di liberazione, tanto maggiori sono le sue possibilità  di far rinascere una democrazia politica. La sua debolezza sul piano propriamente politico lo protegge da un ritorno di quello stesso potere egemonico che ha combattuto.
Se i Paesi occidentali sognano di istituire nel mondo arabo democrazie di tipo occidentale, assegnando la priorità  ai partiti politici, non faranno che contribuire alla decomposizione dei movimenti. Al contrario, solo proteggendo i movimenti da tutti gli attacchi, e in particolare da quelli provenienti dai regimi autoritari, si potranno rafforzare le opportunità  della democrazia; in altri termini, qui la priorità  va data ai movimenti, a fronte di ogni tentativo di ricostruzione di attori propriamente politici. Se anche in futuro il movimento sarà  animato dalla volontà  di far riconoscere le libertà  politiche, vedrà  rafforzate le sue opportunità  di democratizzazione, mentre al contrario, quanto più la sua lotta tenderà  a politicizzarsi, o addirittura a militarizzarsi, tanto più il suo futuro sarà  incerto e minacciato. In Libia l’iniziativa europea (e in misura minore quella americana) è stata indispensabile per fermare la controffensiva di Gheddafi con le sue prevedibili, brutali conseguenze; ma è urgente che essa si autoimponga dei limiti, per non condurre un movimento di liberazione a trasformarsi in guerra ideologica, e a farsi strumento di un nuovo potere autoritario. Lo stesso ragionamento porta ad auspicare il rafforzamento del movimento degli indignados in Spagna e in Italia, e la sua trasformazione in Grecia, come forza di difesa dell’opinione pubblica e non come forza propriamente politica. Sembra che i greci l’abbiano compreso, dato che il loro parlamento ha finito per decidere di non lanciarsi in un’azione di rottura col sistema europeo.
Traduzione di Elisabetta Horvat


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