C’era una volta un’Italia povera che voleva sognare

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È l’ultima avventura di Guerri, scopritore di documenti e di aspetti insoliti della storia, provocatore e ricercatore senza paura. Vero è che con il libro su Maria Goretti suscitò scandali e reazioni durissime, con il brigantaggio ha rivelato quella che fu la prima vera guerra civile d’Italia; i suoi studi sul Ventennio parlarono di una cultura fascista, che da noi non era accettata. Ora scopriamo il suo lato intimistico. Anche in tal caso, questo storico che porta il nome di un filosofo bruciato per eresia sul rogo, narra le proprie origini senza tacere miserie e dolori; e mette in evidenza la forza delle due famiglie da cui proviene.
Giordano Bruno Guerri è allergico all’incenso (precisa: «Chiunque sia il turibolante» ), non ama le appartenenze, ride di tutti i bigotti del «politicamente corretto» («Tanto più patetici quanto più credono di essere perbene» ), non ha mai studiato per fare carriera anche se ne ha accumulata tanta: direttore editoriale della Mondadori, direttore dell’ «Indipendente» e di «Storia Illustrata» , presidente del Vittoriale degli Italiani, conduttore di programmi televisivi, ora responsabile dell’immagine della città  di Pescara, docente universitario a Roma.
Con questo racconto ha messo il suo cuore a nudo, per parafrasare Baudelaire, e come il sommo poeta francese ha cercato di capire chi egli sia per ricordarlo un giorno ai propri figli. Precisa: «Uno, Nicola Giordano, ha quattro anni e mezzo, l’altro, che si chiamerà  Pietro Gabriele, nascerà  in novembre» . Come dire: è bello cercare di comprendersi una volta, forse definitivamente. In fondo, chiunque dialoghi con Giordano Bruno Guerri scopre che in lui si agitano domande esistenziali e angosce di verità , le medesime che lo spinsero a intraprendere interminabili ricerche, ma soprattutto lo costrinsero a nascere continuamente nell’onestà  degli studi. Non ha lasciato depositare infingimenti nel suo spirito. Questo tentativo di scrivere la storia della propria famiglia non è che un inizio.
Parlando con lui, negli ultimi tempi mentre era intento alla stesura del libretto, ci ha confidato: «Vorrei continuare, anzi confesso che ho già  scritto altre pagine. Come Montaigne, desidererei dipingere, dopo molti personaggi storici e questi della mia famiglia, me stesso: senza falsità , senza sconti, senza barare, con quanto ho vissuto, sbagliato, amato» . In altre parole, Giordano Bruno ha parecchie cose da aggiungere, come il Sessantotto, i frenetici anni Settanta («Quando la mia vita sessuale era variegata» ), il lavoro alla Garzanti e l’impegno editoriale, l’avventura in Mondadori, gli incarichi, la fulminea carriera e l’odio per ogni vincolo. Certo, ci sono anche gli errori. E qui, il suo laico cuore si scioglie: «Ne ho commessi tanti, ma come Anna Karenina sarei pronto a ripeterli. Quasi tutti» .
Le pagine che il «Corriere» pubblicherà  contengono anche uno spaccato dell’Italia che ci siamo dimenticati, ovvero quel Paese povero, disperato, che aveva la sua identità  soltanto nella miseria e nelle privazioni e nel quale i sentimenti erano altra cosa rispetto alle fantasie di oggi. Di più: in quel mondo ancora preindustriale, in cui non c’era nemmeno la pietà  e la giustizia così come oggi le intendiamo, si aveva la forza di definire un bambino sulla pagella scolastica «figlio di N. N. e di Gina Guerri» perché i genitori non erano sposati e quindi venivano considerati concubini e pubblici peccatori. E questo anche se Giordano Bruno nacque nel 1950. Le pagine dell’inedito sono giudicate dall’autore «le mie migliori» , anzi ci ha confidato che sta aspettando la loro uscita con le stesse emozioni con cui attese quella del suo primo libro su Bottai. Correva il 1976, da Feltrinelli.


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