C’è chi studia il ritorno al marco e alla lira Ma sarebbe un disastro

by Sergio Segio | 20 Luglio 2011 6:33

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Scommettiamo che è solo questione di tempo? Ancora qualche insipido vertice a Bruxelles, uno spettacolare sciopero al Pireo proprio mentre sbarca una colonia di bambini bavaresi, un’altra serie di scosse elettriche sulla curva dei Btp, e qualcuno si farà  venire un’idea geniale. Poi la enuncerà  ad alta voce, fieramente, in modo da metterci sopra il suo copyright: «Si stava meglio quando si stava peggio!» .
Scommettiamo che finisce così? In fondo noi europei -tutti, gli iberici come gli ex sovietici, i venditori come i compratori del Colosseo -saremo sì un po’ in declino, ma competitivi in alcune delle arti più antiche del mondo: andare avanti guardando indietro, cacciare la testa nella sabbia e chiamare il panorama che si osserva da là  sotto una veduta d’insieme. Nel caso di specie, ciò significherebbe pensare a un ritorno alle monete nazionali o a qualche loro più o meno fedele surrogato. Come se questa fosse la soluzione che può portarci fuori da questo labirinto dove l’ostinazione degli uni e la riluttanza degli altri ci hanno cacciato. «Basta con l’euro, ridateci il franco, il fiorino, il marco, due o tre lire e qualche corona» .
Diciassette idee geniali. Nel Capodanno del ’ 99 a Bruxelles, all’atto di nascita della nuova valuta, un telegiornale spagnolo si divertì a far pronunciare la parola euro con gli accenti di decine di lingue del continente: oiro, erò, evro, eeeuro. Fu divertente e per la verità  neanche tanto facile. Ma sillabare con un accento europeo i nomi di decine di monete diverse sarebbe un esercizio prossimo a quello di un fachiro. Scommettiamo? O meglio, proviamo a immaginare che aria avrebbe quell’esperimento? Partirebbe con molta retorica, su questo si può star sicuri. Ma non solo con quella, forse prevedibile, sulla virilità  del buon vecchio Deutschemark: giochi di parole del genere possono funzionare in una birreria di provincia della Pomerania, ma già  ad Amburgo o a Colonia suonerebbero meno credibili. No, vulnerabile ai retori da spaghetti e mandolino sarebbe anche una parte della platea italiana. E giù sviolinate su come si stava bene ai tempi dell’austerity, com’era bello andare al mare con la Fiat 127 color crema e prosperare scaricando 1.900 miliardi di euro (pardon!) sulle generazioni successive. Si continuerebbe poi lasciando la parola ai pifferai magici un po’ più ferrati nella tecnica: ci diranno che una bella svalutazione tornerebbe a fare della piccola, agile Italia una navicella pirata dell’export attorno alla lenta Germania, e altri luoghi comuni.
 Meno rilevanti risulterebbero invece i fatti. Uno di questi è per esempio che l’export del «made in Italy» è sceso di 3,2 miliardi dal 2008 al 2010 anche verso la Germania, un Paese in pieno boom verso il quale pure non abbiamo rivalutato: il problema è dunque la scarsa competitività  nazionale, non la forza eccessiva della moneta. Altro fatto trascurabile è poi che se si tornasse alla lira, o se la moneta unica si spezzasse in due fra Nord e Sud, la Repubblica italiana si troverebbe di colpo con 1.900 miliardi di euro denominati in valuta estera. I debiti in euro infatti restano tali. E più quella valuta si dovesse rafforzare sulla nuova divisa italiana, più l’onere del debito salirebbe a livelli insopportabili.
 I recenti «stress test» europei sulle banche hanno rivelato che il debito pubblico italiano pesa per il 200%del «core tier 1» (cioè il capitale «buono» ) degli istituti nazionali: un incidente sul debito dovuto al ritorno alla lira o adozione dell’euro B rischia di spazzare via il patrimonio del sistema finanziario nazionale. «As always, good luck» (come sempre, buona fortuna): è la formula di saluto di Goldman Sachs nelle sue note agli investitori e andrebbe rivolta anche ai protagonisti della politica dello struzzo anche dall’altra parte delle Alpi.
 L’industria tedesca per esempio, che non reagisce mentre la cancelliera tedesca lotta per far fallire la Grecia e così allargare in Europa in contagio che mette a repentaglio la moneta. Dopotutto
perché preoccuparsi? La Cina— non la Francia o l’Italia— è il primo mercato mondiale per Volkswagen e tra poco potrebbe diventarlo anche per Mercedes e Bmw. L’export tedesco verso la Repubblica popolare è cresciuto del 44%solo nel 2010, a 54 miliardi, per non parlare di quello verso la Russia o il Brasile. Dunque che bisogno ha ormai la Repubblica federale tedesca dell’Europa e della sua improbabile moneta? Nessuno ovviamente, se non fosse per un dettaglio: senza il «peso» dell’insieme europeo, un eventuale nuovo marco tedesco (o un «euro del Nord» ) si sarebbe probabilmente comportato in questi anni più o meno come il franco svizzero. Dal 2009 si sarebbe rivalutato di circa il 50%sia sul dollaro che sullo yuan cinese. Siamo sicuri che senza la zavorra dell’euro l’export tedesco verso la Cina o gli Stati Uniti, i due grandi mercati globali, andrebbe così bene? Può darsi. Tutto può darsi: persino che se l’euro si spezza in due, l’Olanda annunci con sdegno che ovviamente lei starà  con la moneta forte del Nord, ma che Philips sposti la sede da Amsterdam a Barcellona dopo il «profit warning» che ha già  fatto crollare il titolo in Borsa il mese scorso.
 Può darsi anche che la Slovacchia, in questi giorni allineata a Berlino contro Atene per dimostrare la sua solidità  mitteleuropea, decida di schierarsi con l’euro del Nord. Poi però magari Peugeot annuncerà  che chiude le sue fabbriche in Slovacchia per spostarle in Bulgaria e allora Bratislava potrebbe fare un giro di valzer e candidarsi come sede della banca centrale «sudeuropea» .
Tutto può darsi. Del resto molti responsabili del sistema politico europeo stanno agendo in questi giorni con fantasia e ostinazione da bambini rissosi in un parco giochi. Da Roma a Berlino, passando per Francoforte, è tempo che dimostrino invece che sono degli adulti. Adesso. Domani può essere tardi.

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