by Sergio Segio | 29 Luglio 2011 6:59
UN bel gambero rosso comprato su una bancarella di pesce nel porto di Mazara del Vallo. Un polpo imperdibile seduti ai tavoli della sagra più famosa d’Italia, quella di Mola di Bari. Oppure un filetto di cernia indimenticabile a Gallipoli. Nelle guide turistiche raccontano che ci sia soltanto una cosa migliore di un bagno nel mare italiano. Mangiarlo.
Evidentemente però in questi anni deve essere cambiato qualcosa perché il pesce venduto da Palermo a Milano tutto è tranne che un prodotto nostrano.
Il gambero di Mazara arriva infatti dal Mozambico. Il polpo di Mola dal Vietnam. Il filetto di cernia di Gallipoli (che in realtà era pangasio) dal fiume Mekong. E non si tratta di casi isolati. Oggi in Italia la pesca è uno dei settori più aggrediti dalle importazioni selvagge dall’estero, in particolare dai paesi asiatici. E soprattutto dalla sofisticazione alimentare. «Due terzi del pesce servito sulle tavole italiane è finto, taroccato» denuncia la Coldiretti. «Il 30 aprile l’Italia ha mangiato l’ultimo pesce del Mediterraneo» denunciano Nef e Ocean2012, organismi internazionali del settore. «Dal primo maggio tutto quello che arriva sulle tavole italiane non è prodotto nostrano». Ma davvero è così? Che pesce compriamo ai mercati e mangiamo al ristorante? Da dove arriva? Chi lo pesca? E soprattutto: fa male alla nostra salute?
I TAROCCHI
Per capire l’entità del fenomeno forse è bene cominciare dai numeri. Lo scorso anno in Italia sono state commercializzate dice l’Irepa – l’Istituto di ricerche economiche per la pesca e l’acquacoltura – circa 900mila tonnellate di pesce per un ricavo di circa 1.167 milioni di euro. Bene: di tutto il pesce messo in commercio, soltanto 231.109 tonnellate erano state pescate nel mare italiano. Un terzo, appunto. Tutto il resto arriva dall’estero. Il problema è che molto spesso, anzi quasi sempre, denunciano le associazioni di categoria e confermano le forze di polizia che da Milano a Palermo continuano a fare sequestri e aprono nuove inchieste, il pesce che arriva dall’estero non è di buona qualità . Spesso è pericoloso perché non tracciato e non tracciabile. E soprattutto viene venduto per quello che non è. È finto. Non potevano credere ai loro occhi gli uomini della Capitaneria di porto di Mazara quando, sulle bancarelle della marina più grande d’Italia, hanno trovato i gamberetti rossi che arrivavano direttamente dal Mozambico. E nonostante questo spacciati dai pescatori per italianissimi. A Gallipoli, invece, la Finanza in mezzo al mercato del pesce all’interno del porto – meta di turisti da tutta Italia per il folclore dei pescatori che rientrano dal mare e vendono il prodotto appena tirato su con le reti – ha sequestrato una bancarella che vendeva esclusivamente pesce taroccato: di fresco aveva soltanto alici e sarde, i prodotti cioè che costano di meno. Tra i falsi più diffusi c’è poi il pangasio, un pesce pescato nel Mekong, che viene abitualmente venduto come fosse un filetto di cernia. Oppure nelle fritture servite nei ristoranti di casa nostra, il polpo non è polpo. O meglio, non è del Mediterraneo ma arriva direttamente dal Vietnam. Era asiatico, per esempio, anche il polpo venduto lo scorso anno nella sagra di Mola, in provincia di Bari, che per rendere l’idea è come comprare il tartufo di Avellino ad Alba. Frequente anche il caso del merluzzo fresco, o presunto tale: dicono i sequestri dei Nas che spesso si tratta di pollak stagionato. Tra i pesci più “copiati” c’è il pesce spada che altro non è che trancio di squalo smeriglio. C’è anche il caso di baccalà , in realtà filetto di brosme, oppure del pagro fresco venduto come dentice rosa. E ancora il pesce serra al posto delle spigole, il pesce ghiaccio al posto del bianchetto, la verdesca al posto del pescespada, l’halibut atlantico al posto delle sogliole. Infine, gli spaghetti con le vongole: 75 per cento di possibilità che siano state pescate in Turchia. Ma perché questa invasione? Chi ci guadagna?
IL BUSINESS
«Sicuramente non noi» spiega Mauro Manca, presidente dell’Associazione Acquacoltori, la costola che si occupa di pesca della Coldiretti. «Basti ricordare che nel giro di due anni il settore ha perso il 12 per cento della produzione e l’11 per cento dei ricavi e che nei primi mesi dell’anno la quota di importazione continua a salire in maniera importante: da oggi fino alla fine dell’anno non si venderà più pesce italiano». Numeri che vanno a braccetto anche con il crollo dei pescatori. Secondo il Centro Studi Lega Pesca sono rimasti solo 28.542 pescatori, il 61,4 per cento concentrato nelle regioni meridionali e insulari. L’età media generale oscilla tra i 41 e 43 anni solo grazie all’ingresso di giovani immigrati che, per esempio, hanno ormai l’esclusiva a Mazara come a Manfredonia.
Tornando al business, gli affari sono unicamente nelle mani degli importatori, i veri padroni della pesca in questo momento in Italia. Si tratta di vecchi armatori riciclati e, come stanno provando a raccontare due indagini della procura di Lecce e di Palermo, in alcuni casi anche con infiltrazioni della criminalità organizzata che come al solito ha messo gli occhi su un business importante. Per comprendere quanto conviene importare il pesce dall’estero è bene guardare ancora una volta i numeri. Come ha ricostruito la Guardia di Finanza in un’inchiesta a Bari, il costo del pesce taroccato è sino a otto volte inferiore rispetto all’originale. Il caso più eclatante è probabilmente quello dello squalo smeriglio, difficilmente commerciato in quanto poco richiesto dal consumatore. Il suo prezzo di acquisto in fattura era di 2,50 euro al chilo. Veniva invece venduto come pesce spada fresco a 19 euro. «In questo tipo di business un ruolo di particolare importanza – continua Manca – è quello della ristorazione che, forte di un dato statistico che attesta nel 75 per cento circa il consumo extra domestico di prodotti ittici, deve garantire anch’essa un livello accettabile di trasparenza nei confronti del consumatore, in modo da favorire ancora una volta la scelta consapevole di un prodotto italiano, rispetto a uno di provenienza estera, elemento a oggi non garantito nella maggioranza dei casi». «Con tre piatti di pesce su quattro che vengono dall’estero all’insaputa dei consumatori occorre mettere in campo delle iniziative capaci di riportare sulle tavole il prodotto made in Italy che è sicuramente più sano e gustoso degli ormai onnipresenti gamberetti asiatici o del famigerato pangasio», spiega Tonino Giardini, imprenditore marchigiano e presidente di Impresa Pesca Coldiretti. Non è un caso che nel 17 per cento dei casi infatti l’etichettatura obbligatoria sul pesce servito nei ristoranti è assente, nel 38 per cento dei casi è incompleta. Ma fa male soltanto all’economia l’importazione del pesce straniero?
IL RISCHIO SANITARIO
Il quadro che proprio nelle scorse settimane ha tracciato il Rasff (Rapid alert system for Food and Feed), l’agenzia di sicurezza alimentare dell’Unione Europea, non è affatto tranquillizzante. Nella relazione viene segnalato come siano stati trovati batteri in molluschi italiani, cadmio in calamari congelati che arrivavano dalla Spagna, salmonella brunei nella salsa cocktail a base di gamberi congelati provenienti dal Bangladesh e confezionata in Italia, infestazione da larve di nematodi in nasello congelato dalla Spagna, mercurio in filetti congelati di squalo blu e pesce spada sotto vuoto dalla Spagna. Insomma un elenco infinito di porcherie che arriva come pesce prelibato sulle tavole degli italiani. A preoccupare gli esperti c’è poi in particolare il pesce che arriva dal Vietnam, dove peraltro è permesso un trattamento con antibiotici che in Europa è vietato perché pericoloso per la salute.
Ma il rischio non è soltanto quello dell’importazione. Uno dei problemi arriva dall’utilizzo massiccio di alcuni additivi chimici che i pescatori usano per “rinfrescare” il pesce, perché danno lucentezza al prodotto non fresco. Le conseguenze sono incredibili. Ecco per esempio cosa è accaduto al professor Gagliano Candela, tossicologo, docente universitario e consulente di decine di procure italiane. «Avevo comprato il tonno, come prodotto freschissimo, in una pescheria. Per caso ho spento la luce in cucina e il mio tonno è diventato fluorescente. L’effetto è dovuto – spiega – a un additivo utilizzato per sbiancare il pesce e renderlo brillante. Il principio è lo stesso impiegato per i detersivi delle camicie, quelli che restituiscono brillantezza ai colori». Uno degli additivi più usati, nonostante sia vietato in Italia, è il cafodos. I carabinieri del Nas lo sequestrano in continuazione in tutta Italia. Di per sé non è molto tossico ma può essere dannoso se viene ingerito. «Il pesce – spiega il professor Alberto Mantovani, tossicologo del dipartimento di Sanità alimentare e animale dell’Istituto superiore di sanità – e in particolare alcune specie come il pesce azzurro o il tonno, rilascia istamina in quantità sempre maggiori con il tempo. Mangiando quindi pesce vecchio si ingeriscono alte quantità di istamina che possono provocare un avvelenamento acuto. I rischi sono quelli di un’allergia violenta – continua – o di problemi più gravi per alcuni pazienti, come i cardiopatici». Proprio a Bari, sono finite in ospedale una decina di persone dopo aver mangiato alici al cafodos. E un’altra inchiesta è partita in seguito alla denuncia di un allergico che ha avuto una crisi per colpa di pesce azzurro ormai vecchio. Ma l’importazione selvaggia sta facendo soffrire il nostro mare?
I DANNI ALL’ECOSISTEMA
Sì, a credere agli esperti. La colpa è ancora una volta dei grossisti che oltre a far arrivare il pesce da Cina, Vietnam o Indonesia, hanno cominciato ad allevarlo. Le guardie costiere hanno per esempio lanciato l’allarme per il granchio cinese, considerato forte e aggressivo, in grado di impedire la crescita degli altri crostacei e di altre varietà nell’habitat in cui si riproduce. In sostanza sta distruggendo altre specialità . Esiste poi un paradosso che sta conoscendo il popolo del Mediterraneo. Un terzo del pesce che viene pescato viene ucciso e ributtato in mare perché la sua commercializzazione non è considerata conveniente. «Il fenomeno è sempre più frequente» spiega Angelo Cau, docente di biologia marina all’università di Cagliari in una relazione a un convegno specializzato. «Pescando a 400 metri di profondità si butta in mare il 60 per cento del pescato. Pescando a 200 metri di profondità si può arrivare a buttare in mare anche più del 90 per cento del pescato. In media si spreca un terzo di tutto ciò che finisce nelle reti e quattro specie su dieci non vengono commercializzate pur avendo le carte in regole per essere vendute. «I nostri pescatori il pesce lo porterebbero volentieri a terra» osserva Ettore Ianì, presidente di Legapesca. «Ma il problema è che nessuno lo compra: costa troppo, ha dimensioni ridotte. Insomma non è concorrenziale con il prodotto importato dall’estero». In fondo, non è poi così lontano il Mozambico.
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