Bersani: manovra classista
ROMA.Un incontro con il governatore di Bankitalia e prossimo presidente della Banca centrale europa. È la prima cosa che ha chiesto e ottenuto Pier Luigi Bersani di ritorno dal suo viaggio in Medio Oriente. Per vederci chiaro nello stato dei conti del Paese. Perché del ministro Tremonti c’è poco da fidarsi, visto che è passato in poco tempo da dichiarazioni del tipo «serve solo fare la manutenzione dei conti del Paese» al «Titanic» di ieri al Senato, nel corso dell’approvazione del bilancio. E visto che la manovra, in un solo giorno, proprio dopo le «raccomandazioni» di Draghi, è lievitata di ben 19 miliardi.
Un incontro fra la massima istituzione economica del paese e il segretario del più grande partito d’opposizione (fra l’altro già ministro dello Sviluppo), potrebbe persino rientrare nella «fisiologia» della vita di un paese democratico, spiegano al Pd. Ma in questo momento è allarme rosso, c’è ben poco di normale nella situazione italiana. Le opposizioni hanno accolto l’appello «alla responsabilità » del capo dello Stato senza fare un plissé né un emendamento al testo (né un ordine del giorno), che infatti verrà approvato oggi in via definitiva dalla Camera. Più che una legge-lampo, «un miracolo», come dice lo stesso Napolitano, il vero responsabile di questo miracolo.
E di nuovo, come altre volte proprio per seguire le indicazioni del presidente della Repubblica, il Pd si ritrova incastrato fra «responsabilità » verso il Paese e rischio di salvare così il governo Berlusconi. Perché nel merito della manovra, il giudizio di Bersani è durissimo, tanto da rispolverare un lessico di rara circolazione fra democratici: «Vergognosamente classista» l’ha definita il segretario con i suoi e così la definirà oggi in aula. «Introduce i ticket ma salva i furbi delle quote-latte, mette le mani sulle pensioni ma non sulle rendite. E contiene meno di zero sull’evasione fiscale».
Così da oggi il Pd dovrà spiegare al Paese le proprie controproposte. Che per inciso la maggioranza, evidentemente meno commossa dalla solidarietà nazionale invocata da Napolitano, ha totalmente ignorato. Soprattutto il Pd dovrà spiegare ai cittadini il complicato concetto di «responsabile» ma non «corresponsabile», per dirla con la definizione spericolata coniata da Enrico Letta. Non ha combattuto contro la manovra per evitare che il Paese venisse travolto da ulteriori turbolenze dei mercati. Ma, magra consolazione, ha votato no a tutto, e quando toccherà al Pd – questo dirà oggi in diretta tv il segretario, promettendo la tassazione delle rendite – sarà chi ha di più a pagare di più (contribuire, nel lessico soft di casa democratica). Il punto di approdo del ragionamento è che – da giorni ormai il gruppo dirigente Pd lo ripete – «questo governo ha fatto questa manovra perché non è in grado di farne altre. E se resta al suo posto fa un danno al Paese. Se ne deve andare». In Europa – e di questo Draghi è il primo a rendersi conto – l’opinione corrente è che un’Italia con Berlusconi al comando sia un pericolo non solo per se stessa. E la manovra va in direzione opposta alla messa in sicurezza del Paese.
Dimissioni, dunque, e voto subito, la strada che Bersani preferisce. E in campagna elettorale «ciascuno presenterà la sua ricetta, tenendo fermi i saldi». In subordine c’è un governo tecnico con mandato breve per cambiare la legge elettorale.
Ma qui iniziano i guai, per Bersani. La direzione di martedì 19, convocata sulla manovra, sull’emergenza e su come spiegare al Paese la posizione del non aderire né sabotare, dovrebbe chiudere le polemiche sugli opposti referendum elettorali che agitano il Pd. Da una parte i proporzionalisti, pochi e ormai persuasi a mollare, dall’altra i bipolar-maggioritari. Bersani martedì presenterà la proposta di legge elettorale del Pd, già di fatto approvata dal ‘caminetto’: maggioritario a doppio turno, con collegi e recupero proporzionale. Bersani stavolta non chiederà il ritiro dei dirigenti Pd dagli opposti comitati referendari. Lo ha già fatto, senza esito, fra l’altro gli uni e gli altri sono stati attenti a starne formalmente fuori. Ma «confido nel buon senso di tutti, in un momento grave come questo solo chi è fuori dal mondo può pensare che il Pd debba discutere di sistema elettorale, e non del rischio che il Paese corre», dice Stefano Fassina, responsabile economico del partito.
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