by Sergio Segio | 31 Luglio 2011 7:37
Questo tuttavia non sta a indicare che gli investitori ritengano scarso il rischio di default. Come sempre nelle crisi, c’è chi rimane con il cerino in mano e chi si arricchisce. Già da tempo infatti fervono i preparativi: Pimco, il più grande fondo obbligazionario, ha cominciato fin da marzo a vendere US Treasuries allo scoperto, mentre JP Morgan Chase riporta che negli ultimi tempi gli istituti finanziari hanno cominciato a spostarsi dal lungo su titoli con scadenza a 7 giorni. Infine le grandi imprese americane, memori dei costi inflitti dal collasso dei mercati finanziari seguito al fallimento della Lehman Brothers, stanno accumulando montagne di liquidità , rinviando gli investimenti (e dunque anche la ripresa del reddito e dell’occupazione). I segnali di nervosismo si stanno accumulando: la scivolata del dollaro, l’aumento dei tassi di interesse sui titoli pubblici a breve e l’impennata dei premi di assicurazione contro il rischio di default.
Nel frattempo, le principali agenzie di rating hanno annunciato che procederanno a un declassamento del valore del debito americano nel caso che non si raggiunga un accordo. (…) Ma che impatto avrebbe un default? Ben Bernanke, il governatore della Federal Reserve, ha dichiarato che sarebbe «una enorme calamità finanziaria», capace di far precipitare l’economia americana in una nuova crisi. Se l’aumento dell’incertezza indotto dall’impasse nell’accordo sul debito può provocare un aumento del costo del credito, e dunque maggiori oneri finanziari per lo stato, le famiglie e le imprese, un declassamento del debito, con le norme attuali, potrebbe portare a una paralisi dei mercati finanziari. Le banche, che usano i titoli del debito pubblico come collaterale per i prestiti con la BC, si vedrebbero infatti chiusi i canali di finanziamento. Ma l’onda d’urto potrebbe andare ben oltre. Come ha ricordato un analista della JP Morgan Chase, «il prezzo dei titoli del debito pubblico sono usati come riferimento in molti altri mercati finanziari. Qualcosa come 4.000 miliardi di dollari di titoli pubblici (su un totale di 14.270 alla fine di marzo) sono usati come collaterale nel mercato dei futures, dei derivati, dei pronti contro termine, mercati cioè che rappresentano una fonte cruciale di finanziamento per le imprese finanziarie. Non si avrebbe dunque solo un aumento del costo del credito, ma un credit crunch su tutti i mercati finanziari».
Le crisi recenti ci hanno dolorosamente ricordato come il sistema finanziario sia strettamente interconnesso: non esiste una crisi “isolata”, il contagio è assicurato. Dunque, quali le ripercussioni internazionali? Se il declassamento del debito Usa portasse a una caduta della domanda di titoli pubblici, ne seguirebbe una caduta del valore del dollaro. Ne verrà minato lo status di valuta di riserva? Dipende da cosa faranno i detentori ufficiali del debito, in primis Cina e Giappone che detengono, insieme, quasi il 50% del debito pubblico Usa in mani estere. E l’euro? Vi sono diversi possibili scenari. Quello più drammatico prevede che l’intervento delle autorità americane non riesca a evitare la crisi finanziaria, che travolgerebbe anche l’area dell’euro, con i paesi periferici sempre più in balia delle agenzie di rating. Vi è però una variante: se la crisi innescasse una fuga dal dollaro da parte degli investitori privati verso valute di riserva alternative, la moneta europea, e forse con essa anche il traballante piano di salvataggio messo faticosamente insieme dai governi europei, potrebbero essere salvati.
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