America e Italia, rischio Armageddon “Un agosto di panico sui mercati”
new york. “Armageddon” è l’apocalisse economica e finanziaria che Obama paventa se la classe politica americana non rinsavisce entro pochi giorni. Ieri il suo ultimatum è scaduto senza che avvenisse il miracolo. Fumata nera. Niente accordo con la destra per tagliare il deficit, quindi alzare il tetto del debito pubblico. Eppure è un passaggio obbligato dalle leggi Usa, senza il quale il Tesoro si troverebbe di fatto in cessazione di pagamenti e quindi tecnicamente in “default”.
“Armageddon” finora non ha sconvolto i mercati, abituati a considerare la “tripla A” dei titoli del Tesoro americano come un dato di natura, un’à ncora di stabilità , un punto fisso in un universo instabile. Non sarebbe la prima volta che i mercati si svegliano troppo tardi. «Un agosto di panico come quelli del 2007 e 2008 non è più uno scenario improbabile», avverte il Financial Times. Come si è arrivati qui, nel giro di una decina di giorni, lo ricostruisce l’autorevole rivista finanziaria Barron sotto il titolo “America e Italia finiscono al centro del palcoscenico”. In due tappe, ricorda Barron: «Prima sono bastati pochi giorni perché la paura si spostasse dalla periferia dell’eurozona (Grecia) a un paese che è nel cuore della costruzione europea come l’Italia. Per poi aggiungervi nel giro di una settimana la più grande economia e la più grande nazione debitrice del mondo, l’America». A rafforzare questo insolito accoppiamento Usa-Italia c’è il fatto che in ambedue i paesi è affiorata l’idea di emendare la Costituzione per inserirvi l’obbligo di pareggiare il bilancio. (Le differenze restano però: lo sdegnoso rifiuto di Obama di cambiare la Costituzione serve a ricordare che in America quella legge è presa molto sul serio e applicata davvero, quindi non si decide a cuor leggero di aggiungervi un vincolo di bilancio così stringente). La velocità di escalation segnata dalle tappe successive dell’escalation Grecia-Italia-Stati Uniti, spiega perché l’Armageddon di Obama riecheggi nelle parole del membro finlandese della Bce, Erkki Liikanen: «È la più grave crisi che il mondo abbia mai dovuto affrontare». Se i mercati ancora non hanno davvero considerato verosimile un declassamento della solvibilità americana, nel mondo dell’informazione la paura è palpabile. Fox News avverte i telespettatori che «l’effetto a cascata non risparmierebbe nessuno: Comuni, casse di risparmio locali, mutui per la casa, prestiti agli studenti universitari». Lo conferma Gary Sasse che dirige l’Institute for Public Leadership: «Ogni famiglia americana sarà colpita». Anche senza arrivare al default, cioè alla bancarotta di Stato nella più grande economia mondiale, il costo di un aumento del credito provocato dal semplice “downgrading” delle agenzie di rating sarà scaricato sui consumatori, soffocando una ripresa già in via di estinzione. Il Wall Street Journal nell’edizione del weekend è una lettura inquietante, con accenti da Grande Depressione. Da una parte intervista un economista che di fronte allo scenario di un collasso parallelo delle due monete occidentali – euro e dollaro – propone di tornare addirittura al sistema aureo come unico baluardo contro la distruzione dei nostri risparmi. D’altra parte l’autorevole quotidiano somministra ai facoltosi lettori newyorchesi consigli sulle vie di fuga verso sicurezze esotiche: «Investite in monete dei paesi che esportano materie prime, Australia Brasile Canada».
Obama invoca «sacrifici condivisi», ammette che «tagli di spese pubbliche saranno necessari ma anche gli americani più ricchi devono fare la loro parte». Sembra il linguaggio del buonsenso, in un paese dove per sua stessa ammissione l’uomo più ricco del mondo (Warren Buffett) paga un’aliquota d’imposta del 17% perché incassa solo capital gain, mentre la sua segretaria è tassata al 35%. Invece no, il linguaggio di Obama per un pezzo di America è propaganda socialista. Un sondaggio di Time rivela che il 16% degli americani sono convinti di far parte dell’1% più ricco del paese. Di conseguenza si sentono tutti vittime della “caccia al più ricco”. L’American Dream si trasforma in illusione patologica, specchio deformante della realtà , miraggio che ha i tratti dell’allucinazione. Questo incoraggia i repubblicani a tener duro. I loro moderati che cercavano l’accordo col presidente vengono intimiditi dall’ala destra, la nuova generazione portata al Congresso con i voti del Tea Party. L’oltranzismo vuole distruggere il Welfare State fino a cancellare l’impronta del New Deal rooseveltiano. Un piano B a cui Obama potrebbe rassegnarsi – pur di evitare il default e l’Armageddon del 2 agosto – contiene 1.000 miliardi di dollari di riduzione di deficit in 10 anni, esclusivamente attraverso tagli di spesa. Se passa, la destra avrebbe già una vittoria strategica: la crescita è uscita dall’agenda politica americana. Nonostante un mercato del lavoro esanime, e il tasso di disoccupazione che torna a risalire, di sostegni alle assunzioni non c’è più traccia. Evitare in extremis l’Armageddon, impedire che le agenzie di rating declassino i buoni del Tesoro Usa, scongiurare il rischio che il 2 agosto cessino i pagamenti delle pensioni: se Obama ci riesce la vittoria tattica sarà sua, ne uscirà premiata la sua immagine pragmatica. Una buona premessa per farsi rieleggere nel 2012 dipingendo i suoi avversari come irresponsabili. «Ma anche lui pagherà un prezzo», lo avverte dalle colonne del Wall Street Journal Peggy Noonan che iniziò la sua carriera scrivendo i discorsi di Ronald Reagan. Cioè il padre storico di quella rivoluzione conservatrice che continua, ed è disposta a giocare alla roulette russa col debito pubblico, pur di «affamare la bestia», l’odiato Stato sociale.
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