Alta velocità . Quel simbolo dell’eterno conflitto tra modernizzazione e natura

by Sergio Segio | 7 Luglio 2011 4:13

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Gli scontri in Val di Susa sembrano riaprire una ferita antica nel nostro Paese, quella del conflitto tra modernizzazione e tutela della natura, sviluppo e salute pubblica. La rappresentazione di questo antagonismo ha un forte valore simbolico che costituisce da sempre il cavallo di battaglia della cultura e della propaganda ambientalista in Italia e non solo. Nei principali paesi europei, però, un simile campo di tensioni è ormai governato con un efficace protocollo di compensazioni, campagne di comunicazione e regolamentazioni del débat public che accompagnano la realizzazione di ogni grande opera. Senza dubbio in Italia abbiamo ancora molto da imparare al riguardo se il ministro degli Interni è giunto a invocare il passepartout del fantasma terroristico e i “cattivi maestri” di ieri sono stati sostituiti dai “cattivi comici” di oggi.
Per recuperare lo scarto tra simbologia e realtà  e provare a spiegare come mai questa raffigurazione tradizionale delle relazioni tra sviluppo e territorio ancora resista nell’immaginario collettivo nonostante i notevoli passi in avanti fatti in campo legislativo, politico e civile, forse è utile ricordare i due momenti e le modalità  con cui in Italia si è posto per la prima volta il tema del rapporto fra industrializzazione e tutela ambientale.
Il primo caso conduce nel cuore di una fabbrica tipica agli albori del capitalismo italiano. Edgar Meyer ne I pionieri dell’ambiente ha individuato l’origine dello scontro tra le ragioni dello sviluppo industriale e quelle della difesa della natura nella valle trentina di Vallagarina, ove nel 1927 la Montecatini costruì una fabbrica di alluminio rimasta attiva sino al 1983. A metà  degli anni Trenta scoppiarono vaste proteste organizzate dagli abitanti del luogo colpiti dalle emissioni di fluoro dell’impianto che cominciarono a danneggiare prima il bestiame e le coltivazioni e poi gli uomini. La rivolta, con scontri di piazza e un notevole protagonismo femminile anche perché la malattia colpiva in particolare i bambini che si riempivano di macchie blu, fu sedata dal regime fascista perché la fabbrica stava assumendo un ruolo strategico nella produzione bellica. La Montecatini risarcì in segreto i locali senza però assumersi ufficialmente la responsabilità  del danno, ma il vero conflitto scoppiò tra i contadini e gli operai, i quali temevano di perdere il lavoro a causa delle proteste. Dentro questo evento simbolo dello sviluppo industriale si trova la matrice di un doppio atteggiamento: da un lato uno Stato repressivo e, dall’altro, una cultura operaia insensibile alle tematiche ambientali percepite dai lavoratori come lesive del loro protagonismo sociale.
I tratti peculiari di questa via italiana alla modernizzazione trovarono in Pier Paolo Pasolini e nella sua distinzione tra sviluppo e progresso il critico più ascoltato. Egli avrebbe reinventato il mito agreste del bel tempo perduto a uso e consumo del ceto medio neo-urbanizzato che non aveva sperimentato le immani fatiche e miserie della vita contadina dei propri genitori. Non a caso la massima influenza di questo pensiero si esplicò quando entrò in crisi il modello di sviluppo fordista e si fece strada un’idea regressiva del progresso in coincidenza con lo shock energetico del 1973.
Il secondo momento infatti si ebbe nel 1977 con la nascita del movimento anti-nucleare a Montalto di Castro, ove, nel mese di marzo, si riunirono ventimila persone per celebrare la “Festa della vita” e il 28 agosto si svolse la prima manifestazione nazionale. In questo movimento la violenza e il parossismo ideologico di autonomia operaia e degli indiani metropolitani si mescolarono con le denunce di intellettuali come Dario Fo e Guido Ceronetti e con l’impegno pacifico delle prime associazioni ambientaliste, dei radicali e della società  civile organizzata in comitati di artigiani, contadini, villeggianti e proprietari terrieri. Non mancarono blocchi ferroviari, sabotaggi di cantieri e veri e propri attentati: un ordigno incendiario venne lanciato contro la sede del Tar di Roma e contro il consolato francese per vendicare la morte di un militante antinuclearista ucciso dai gendarmi transalpini. Dal punto di vista paesaggistico la battaglia di questo movimento ebbe esiti paradossali: grazie al referendum del 1987 il programma nucleare fu bloccato, ma a Montalto di Castro si costruì comunque una centrale, un “ecomostro” poi riconvertito in impianto termoelettrico ancora attivo. Tuttavia il vero successo del movimento fu un altro: riuscire a isolare i violenti facendo prevalere le ragioni e le modalità  di una protesta pacifica e civile.
Queste due storie paradigmatiche aiutano a spiegare perché la ferita del rapporto tra ambiente e sviluppo non si è mai rimarginata del tutto nel nostro Paese: a causa di uno Stato ostile o inefficiente, per il ritardo con cui il mondo operaio e sindacale hanno preso coscienza dell’importanza di una cultura ecologica e della necessità  di uno sviluppo sostenibile e perché la battaglia ambientale a volte è stata occasione di strumentalizzazione politica violenta da parte di una minoranza estremista. Quest’ultimo punto appare oggi quello decisivo: se non si riuscirà  a isolare chi soffia sul fuoco dello scontro armato, anche le motivazioni e i timori dei No Tav e del mondo ambientalista saranno oscurati fino a scomparire del tutto.

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