Agota Kritof. Addio alla grande esule ungherese

by Sergio Segio | 28 Luglio 2011 5:54

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Nessuno può dire di aver letto un racconto o un romanzo di Agota Kristof senza restarne in qualche modo toccato o perfino ferito. L’autrice, nata in un villaggio ungherese nel 1935, è scomparsa ieri a Neuchatel, la città  svizzera dove si era stabilita. Nel ’56, in seguito all’invasione sovietica del suo Paese, la scrittrice fuggì con il marito e la figlia di quattro mesi. La sua lingua diventerà  allora il francese, che non riuscirà  però a dominare completamente, anche se è con questo idioma che costruirà  la sua opera letteraria.
La fuga, l’esistenza da esule, la condizione operaia hanno segnato lo stile della Kristof, quella sua scarnificazione delle frasi, con la sintassi ridotta al minimo, semplice e proprio per questo diretta e ineludibile. E poi le storie, le trame, i personaggi, se così si possono chiamare gli strani attori dei suoi racconti spesso intenti a fare e a farsi del male come se fosse la cosa più naturale del mondo. Dunque una scrittura usata come una materia viva e la voglia di raccontare un incubo come se fosse la pura normalità .
Per quel suo francese incerto, a lungo la Kristof si considererà  un’analfabeta (L’analfabeta è il titolo di un suo racconto autobiografico). E qui sta forse anche la necessità  di lavorare su una struttura povera della frase. Però c’è una ragione più profonda alle spalle dei libri di Agota Kristof. Il racconto spietato di un mondo che ha perduto il proprio senso e dunque va avanti alla cieca lasciando che accada tutto ciò che può accadere senza tentare di impedirlo. La Trilogia della citta di K., il suo capolavoro, scandisce storie in cui tutto è uguale a tutto. I due gemelli, Lucas e Klaus sono non solo nel nome una sola persona e dunque nel proseguire del mondo non c’è salvezza possibile.
È inevitabile pensare a questo punto al capostipite di una lettura del mondo senza speranza, e cioè a Franz Kafka. Solo che Kafka ha uno spiccatissimo senso del comico e le sue costruzioni, sebbene portino il lettore dentro labirinti senza uscita, hanno sempre un che di fortemente paradossale. Nella Kristof invece il paradosso non c’è più, c’è solo il silenzio e l’insensatezza. Come nella raccolta di brevi racconti intitolata La vendetta dove spietati delitti si accompagnano a un ghigno demenziale.
Scrittrice appartata come pochi, Agota Kristof ha vissuto la scrittura come il doppio di un’esistenza non facile. Operaia in una fabbrica di orologi dove il suo lavoro consisteva nel fare dei forellini, ha esistito “fuori di sé” come spesso accade agli esuli che mai si sentono fino in fondo a casa nella nuova patria. La Kristof appartiene dunque al filone più nobile della letteratura novecentesca: diciamo quella dei “non conciliati” che soffrono nello scrivere le pene di un’esistenza alternativa forse peggiore di quella vera. Come Bernhard, come Coetzee, tanto per fare due nomi. Così, in modo indimenticabile, Agota Kristof ha scrutato il mondo da un abisso e lo ha inevitabilmente condannato.

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