by Sergio Segio | 18 Luglio 2011 7:10
Nella montagnosa provincia di Bamyan, orfana dal 2001 dei suoi ciclopici Buddha, è ufficialmente cominciato il processo della “transizione” che dovrebbe concludersi tra tre anni con il ritiro delle truppe di combattimento della Nato dall’Afghanistan. Ieri, dunque, i soldati della Coalizione, che in quella provincia sono per lo più neozelandesi, hanno consegnato nelle mani della forze di sicurezza afgane – esercito e polizia – il delicatissimo onere di garantire quella sicurezza quotidianamente insidiata dagli insorti. Bamyan è il primo di sette territori (tre province e quattro città ) individuati dal presidente Hamid Karzai come abbastanza sicuri per avviare la “transizione”.
Una semplice cerimonia nel quartier generale della polizia ha celebrato l’inizio del cammino che si concluderà nel 2014, con il ritorno, come ha detto Karzai, dell’Afghanistan agli afgani. Da quel momento, le forze nazionali saranno in prima linea contro chi continua a insanguinare il Paese, sia esso un capo Taliban, un signore della guerra o un grosso trafficante di oppio, il quale manda i suoi scherani a farsi esplodere nei mercati o a piazzare ordigni sul ciglio delle strade.
Tuttavia, come negli altri sei luoghi scelti per inaugurare questo lenta cessione di responsabilità , anche a Bamyan le forze della Nato continueranno a prestar man forte agli afgani. «Nulla cambierà da un giorno all’altro», ha sottolineato un fonte dell’Alleanza atlantica a Bruxelles. Il ministro dell’Interno afgano, Bismullah Mohammadi, presente alla cerimonia, ha invece dichiarato che è giunto il momento per «gli afgani di portare da soli il fardello della guerra». Poche settimane fa, il generale statunitense James Mallory ci aveva spiegato a Kabul che anche dopo il ritiro dei soldati della Nato rimarranno in Afghanistan centinaia di uomini dei corpi speciali e di specialisti di intelligence, per «finire il lavoro cominciato dieci anni fa», quando fu deposto il feroce regime islamico degli “studenti del Corano”. Il Pentagono è consapevole che quando i 130.000 soldati della Nato (di cui due terzi americani) avranno lasciato il Paese, in pochi mesi gli insorti potrebbero riconquistare buona parte delle regioni in cui oggi ancora combattono.
Fortemente voluta da tutti leader occidentali, la “transizione” preoccupa tutti quegli afgani e quegli esperti che temono l’inadeguatezza delle forze di sicurezza nazionali a sostituirsi ai soldati della Coalizione, così come temono la debolezza e la corruzione del governo Karzai. C’è chi si chiede, per esempio, come potrà svolgersi il passaggio di consegne in città come Lashkar Gah, capitale della provincia più insanguinata del Paese, o come Mehtarlam, capoluogo di una regione terribilmente instabile non lontana dal Pakistan. Infine, se l’80 per cento delle unità dell’esercito afgano sono considerate idonee al combattimento quando inquadrate da forze internazionali, da sola nessuna ancora lo è.
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