Acqua pubblica, lo scontro pugliese
Il nervosismo tra le società private che hanno in mano oggi la gestione degli acquedotti è palpabile. A volte si taglia con un coltello, facendo immaginare un autunno caldissimo sul fronte dei beni comuni. Acea ha deciso di mostrare i muscoli, continuando – quasi rabbiosamente – a tagliare l’acqua a chi non può pagarla. Lo fa a Roma, lo fa nelle altre province dove gestisce i rubinetti. E quando interviene qualche sindaco cercando di salvare almeno i casi più difficili, la direzione commerciale fa subito sapere di non avere nessuna intenzione di arretrare: chi non può pagare che muoia di sete. Inutile, in questi casi, chiedere l’intervento delle autobotti, la risposta dei call-center è chiara: «Lei è moroso, non ne ha diritto».
Il confronto sul dopo voto si concentra sul cuore del problema, sul diritto di accesso all’acqua, uno dei pilastri fondamentali della legge d’iniziativa popolare presentata dal Forum dei movimenti per l’acqua nel 2007, che contiene il nocciolo vero dei due quesiti referendari. Un modello – quello uscito dal voto popolare – che poggia su tre colonne portanti: la partecipazione, il diritto all’acqua e la gestione pubblica, sottratta al mercato. Lo scontro frontale tra i 27 milioni di italiani che hanno votato due Si con i colossi del mercato idrico ha scelto come campo di battaglia la Puglia di Nichi Vendola. La legge sulla ripubblicizzazione dell’Aqp continua a non convincere il movimento per l’acqua pubblica. E molto poco convincono le parole del governatore, che nei giorni scorsi ha spiegato di non avere nessuna intenzione di tagliare il 7% del profitto sulla gestione del sistema idrico. La giustificazione “tecnica” Vendola l’ha affidata all’assessore del Pd Amati, che ha ricevuto carta bianca per la gestione della delicatissima fase di passaggio di Aqp da società per azioni ad ente pubblico. «Quel sette per cento in Puglia è un costo – ha spiegato a Radio 24 Amati – e da noi non esiste la remunerazione del capitale». Forse è una semplice svista dell’assessore, o forse non ha riletto con cura la documentazione dell’autorità idrica pugliese. Nel piano d’ambito del 2009 il profitto per Acquedotto pugliese Spa è previsto nero su bianco. Il documento che lo stesso Amati ha più volte citato è il vero motore legislativo della gestione dell’acqua. In quelle pagine sono previsti i criteri per gli investimenti – che fino al 2009 sono stati molto più bassi del previsto – e la formulazione della tariffa che i pugliesi si ritrovano in bolletta: «La remunerazione del capitale investito rappresenta il ristoro economico e l’incentivo riconosciuto al soggetto gestore per il finanziamento degli interventi mediante l’impiego di mezzi propri. Il tasso di remunerazione è fissato dal Comitato per la Vigilanza sulle risorse idriche ed è attualmente del 7%», si legge a pagina 12 del capitolo sette del piano d’ambito. Questo, d’altra parte, prevedeva la legge, fino al 13 giugno scorso, quando il secondo quesito ha abolito il profitto nella gestione del sistema idrico integrato. Non solo in Puglia, ma nell’intero paese.
La giustificazione di Vendola e Amati si basa sull’interesse pagato attualmente da Aqp derivato da alcuni strumenti finanziari un po’ spericolati firmati dall’ex governatore Fitto nel 2005. Basta, però, scorrere il bilancio della società di gestione degli acquedotti pugliesi per leggere come quella cifra sia stata correttamente inserita come «costo finanziario»; nulla a che vedere, dunque, con la remunerazione del capitale. Anzi, se gli interessi fossero calcolati come investimento – come sembrerebbe voler suggerire l’assessore Amati – grazie al meccanismo del 7% che la giunta non vuole eliminare, paradossalmente i pugliesi stanno pagando una sorta di remunerazione sugli interessi, sottraendo risorse preziose per finanziare, ad esempio, il diritto di accesso all’acqua.
Il vero nodo è forse questo. La Puglia in realtà è il laboratorio dove si stanno affilando le strategie antireferendarie da esportare nel paese. Non esiste gestore che non abbia contratto prestiti o strumenti finanziari basati sui derivati, come ad esempio è accaduto con Acqualatina e con la calabrese Sorical.
È dunque il profitto il vero totem da difendere a qualunque costo. Lo spauracchio che viene sventolato è, non a caso, il sistema finanziario, il vero padrone dell’acqua privatizzata. Negli incontri informali tra i manager delle multinazionali dei servizi la paura di perdere accesso agli strumenti finanziari è il tema costante: «Le banche mi hanno chiesto se l’azienda continuerà a fare utile», racconta in off record un alto dirigente. «Se non gli garantiamo quel sette per cento non siamo più affidabili per il mercato finanziario, questo è oggi il nostro problema», prosegue. E guai a parlare di ripubblicizzazione, una parola tabù negli ambienti delle grandi banche d’investimento. Se poi l’argomento cade sul tema del diritto all’acqua e sui 50 litri gratuiti garantiti a tutti – altro tema di scontro tra i movimenti e la Puglia – si viene tacciati di demagogia. Tagliare l’acqua a chi non può pagare è la garanzia della solvibilità dei clienti dal punto di vista strettamente commerciale, e in questo senso l’acqua continua ad essere considerata un servizio come un altro, alla stregua di una linea telefonica. Il potere di chiudere il rubinetto è la pistola da tenere costantemente sulla tempia dei cittadini, per poter intascare senza tante storie quel sette per cento divenuto ormai fuorilegge.
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