Vecchie promesse e antichi slogan

by Editore | 16 Giugno 2011 6:02

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Vecchi i trucchetti dei salotti tv di beccolare qua e là  tra i gialli irrisolti per stare alla larga da quanto è successo. Tutto già  visto. Tutto scontato. Tutto vetusto. Certo, non è più il «politichese» della Prima Repubblica. Quello delle «convergenze parallele» e dei «disaccordi concordati» , delle «astensioni incrociate» e dei «tavoli separati» , delle «maggioranze variabili» e degli «equilibri più avanzati» . Un linguaggio così felpato che Attilio Piccioni, ricorda Andreotti nei suoi Diari, ammiccava su come Alcide de Gasperi rispose al prete che gli chiedeva se volesse in moglie la signorina Francesca: «Non dico di no» . Altri millenni. Ma tutto ciò che era apparso incredibilmente, gioiosamente o traumaticamente «nuovo» al nascere della Seconda Repubblica sembra oggi ingobbito e incanutito davanti alla sorpresa di un’ondata elettorale che è montata seguendo percorsi (da Facebook a Twitter, dai blog ai più irridenti e feroci videoclip su YouTube) del tutto ignoti ai politici tradizionali e a chi confidava soprattutto nella Grande Mamma televisiva. «Siete vecchi! Vecchi! Vecchi!» , ride quel discolo di Oliviero Toscani esorcizzando nella risata i suoi 69 anni. Anche Silvio Berlusconi, ai vertici internazionali, ci ride: «Sfortunatamente sono sempre il più vecchio in questi summit. Ho l’onore di essere stato il presidente del G8 per ben tre volte» . Dice che tutti gli chiedono consigli. Una battuta che somiglia a quella con cui Ronald Reagan liquidò i dubbi sulla sua età  veneranda (73 anni!) in confronto al cinquantaseienne Walter Mondale: «Non voglio sfruttare a fini politici la giovinezza e l’inesperienza del mio avversario» . La vecchiaia, insegna ogni giorno Giorgio Napolitano, può dare saggezza, carisma, autorevolezza. Il guaio del Cavaliere non è solo che ha 10 anni più di Naoto Kan, 18 più di Angela Merkel, 19 più di Nicolas Sarkozy, 23 più del canadese Stephen Harper, 25 più di Barack Obama (che a sua volta si fa scrivere i discorsi da un trentenne), 29 più di Dmitrij Medvedev e 30 più di David Cameron. Il guaio principale è che una delle sue carte storicamente vincenti, la scelta di battere e ribattere su pochi concetti chiari (resta memorabile il vademecum del 2001 in cui raccomandava ai candidati di mandar a memoria e ripetere sempre tre frasi) gli si sta ritorcendo contro. Primo fra tutti l’impegno di un taglio alle tasse. Che fin dal gennaio ’ 94, ricorda l’Ansa, prevedeva nelle 95 pagine del programma elettorale di «andare verso una sola aliquota Irpef non superiore al 30%» e «ridurre le attuali 200 tasse a non più di 10» . Promesse liquidate dall’allora «pattista» Giulio Tremonti come «miracolismo finanziario» ma via via rilanciate per anni e anni. Fino al contratto con gli italiani firmato da Vespa nel 2001: «Esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire» , «riduzione al 23%per i redditi fino a 200 milioni di lire annui» e «al 33%per i redditi sopra i 200 milioni».
Questo è il suo problema, oggi: garantire ai suoi elettori come «nuova» una svolta epocale già  garantita nel 2002 («Il Consiglio dei ministri oggi darà  il via libera alla riduzione delle tasse più grande della storia» ), nel 2003 («Appenderò Tremonti con un cappio a un albero del suo giardino se non ce la farà . Ma so che ce la farà » ), nel 2004 («Ho la speranza di arrivare al 23%e 33%entro la fine della legislatura. Se non ci riuscirò non mi ricandido» ) e via così… Per anni. Fino a sfidare i numeri della Cgia di Mestre, secondo cui il «tax freedom day» , cioè il giorno dell’anno in cui cessano i prelievi fiscali sulla nostra busta paga, si è spostato negli ultimi 10 anni dal 1 ° giugno al 5. E fino a spazientire amici come Vittorio Feltri: «Le tasse non poteva tagliarle ora che c’è la crisi, ma nel 2008? E nel 2001?» . Quanto agli altri impegni presi, addio. Abolizione del bollo auto. Pensione minima per i settantenni «a 800 euro» : è ancora a 604. «Progetto dentiera» per 800 mila vecchi. Abrogazione dell’Irap. Raddoppio dell’Autosole. Ponte di Messina subito «così se uno ha un grande amore dall’altra parte dello Stretto potrà  andarci anche alle quattro di notte» … Ecco il problema: come riaccendere oggi l’entusiasmo di chi lo adorava e gli faceva dire alla vigilia di questa disfatta elettorale che il suo era «l’unico governo europeo che ha vinto tutte le elezioni e ha il presidente che riscuote il più alto indice d’apprezzamento» ? Ma non è solo il Cavaliere, che ha mostrato più volte in passato un talento sbalorditivo nel parlare alla «sua» gente, ad avere il problema di inventare qualcosa di «nuovo» . È un problema che hanno anche la sinistra riformista, che gode incredula d’una raffica di vittorie cadutele in grembo quasi per caso (citiamo un Bersani dell’aprile 2010: «Non abbiamo una strategia referendaria perché in 15 anni si sono persi 24 referendum e poi perché il referendum manca dell’aspetto propositivo» ) e più ancora, probabilmente, la Lega. Una volta era facile, per Umberto Bossi, sul prato di Pontida. Ogni invettiva, ogni provocazione, ogni peana a Re Concolitano bastavano a emozionare il popolo padano. Ogni parola era una rottura, una rivendicazione della propria diversità : «Io sono un barbaro e porto la famiglia in battaglia con me. La mia donna e i miei figli devono sentire l’odore della polvere e il fragore metallico delle spade» . Son passati 12 anni da quando tuonò «sbatterò via tutti i dirigenti che hanno la gotta per le troppe bistecche mangiate» . Undici da quando assicurò: «Il 17 settembre andremo a Venezia con la devolution in tasca» . Dieci da quando giurò che col ritorno al governo era fatta: «Entro l’estate sarà  pronta la devolution, poi metteremo ordine nello Stato centrale e alla fine arriverà  il federalismo fiscale» perché «quando sei lì fai quello che vuoi e i ministri della Lega le riforme le fanno subito per subito» . Su La Padania sentenziò dunque che Roma si mettesse in riga: «Mi sont vun che g’ha pressa» . Sono uno che ha fretta. Parole che, rilette oggi, mentre Radio Padania Libera è tempestata di telefonate di militanti sempre più insofferenti per quel sol dell’avvenire alpino che tante volte è stato annunciato ma ancora non sorge mai, sembrano irrimediabilmente stanche. Polverose. Irripetibili. Il vecchio leader leghista lo sa. Anche il vecchio Cavaliere lo sa. E sanno che, dopo avere per due decenni martellato sulla loro siderale distanza dai riti e dal linguaggio della Prima Repubblica, non possono uscirsene col vecchio e gommoso slogan doroteo: «Molto è stato fatto, ma molto resta da fare» .

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